Capitolo III

Incontri

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    Hastatus

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    Yichudim parlava a bassa voce con Shepard, il comandante dei domabestie, col fuoco da campo che gettava demoniache luci arancioni sugli spallacci spinati e la luna che benediva la scena.
    Bradamante osservava quei due con estremo interesse, tenendosi a distanza di sicurezza dal fuoco: il comandante era un uomo basso e smilzo, con una striscia di pelle scura che andava da un orecchio all’altro e creava una fascia abbronzata in contrasto con quella chiara dell’alta fronte e di naso e bocca. Era palese che parlare praticamente ogni sera al Giudice, confidenza che questi gli aveva dato da quando erano partiti tutti insieme, non faceva altro che mettere Shepard ancora di più sul chi va là.
    La gerarchia dell’Impero era palpabile anche a quella distanza: Shepard con le pupille dilatate e le labbra contratte nello sforzo di non perdersi neanche una parole del Giudice Yichudim, che con le palpebre pesanti si passava una mano sui capelli corvini e apriva e chiudeva le labbra con lentezza.
    Senza mai sorridere.
    Bradamante in tre settimane di viaggio non lo aveva visto mai sorridere, tranne una volta in cui lei aveva tirato un gancio ad uno dei damascani domabestie che sbagliavano sempre il suo nome.
    Quando la mente le corse a quella circostanza, il damascano domabestie Aadil si sedette accanto a lei dandole una pacca sulla spalla:
    - Ehi, Brancimonte! -
    Si iniziò genuinamente a chiedere se lo facessero apposta:
    - Bra-da-man-te! Non è difficile!
    - E’ uguale! Dai, che in due giorni terminerà questa tortura! – gli occhi verdi luminosi anche nella notte di Aadil scintillarono ancora di più – Vedrai quanto Archades sarà bella! Non è simile a nessuna città di questo mondo!
    - E tu hai visto tutto il mondo per dirlo? -
    Aadil chiuse le palpebre e si portò una zampa dal pelo tosato al petto coperto di piastre metalliche:
    - Modestamente noi domabestie possiamo permetterci molti viaggi, sia per la nostra velocità, sia per la paga alta.
    - Buon per voi. Io mi sono girata mezzo impero a piedi e non posso dire di essermi divertita.
    - Oh, andiamo! Solo gli Agazi viaggiano per necessità e senza divertirsi! Non parlare come quelli squilibrati! -
    Bradamante non avvertì una morsa di gelo alle budella per quell’offesa, che lei non sentì più sua, bensì per lo sguardo del Giudice che subito si posò su di lei dall’altra parte del falò.
    Prese a sudare copiosamente; si portò una mano guantata alla camicia dal collo alto che le nascondeva i tatuaggi e che tanto la faceva schiattare di caldo quando cavalcavano di giorno.
    Lo sguardo ceruleo di Yichudim le bruciò le guance; le tornarono in mente le sue parole alla partenza.
    “Che sappiano pure che sei un’armaiola; quello lo capirebbero da soli guardandoti gli occhi gialli. Ma non devono sapere che sei anche una Agazi. Mi ha inteso? Non. Lo. Devono. Sapere”.
    Ma Aadil non fece caso alla linea di tensione che si era creata da una parte all’altra del falò e continuò a parlare imperterrito:
    - A proposito! Hai sentito, no, che c’era stata quell’evasione di massa, più o meno un mese fa? Al campo di Khalak? Pare che siano riusciti a scappare tantissimi Agazi. Ben presto ci sarà una nuova ondata di criminalità nelle zone limitrofe.
    - Questo è falso! – si intromise il domabestie Sartori, le labbra carnose serrate in un moto d’ira – E’ una diceria messa in giro dai detrattori dell’imperatore. Figurati se Kynval non è preparato a una evasione di quei bifolchi! -
    - Esatto – commentò Yichudim scattando in piedi dall’altra parte del fuoco e avvicinandosi, la voce baritonale che ammutolì tutti i presenti – E’ piuttosto ingenuo credere che dei semplici ladruncoli possano soverchiare un’istituzione creata per l’eternità come quella imperiale -
    Calò il silenzio. Qualche raptor ruggì in lontananza. Aadil si fissò le zampe, pieno di vergogna:
    - Giusto. Scusate. Non intendevo sminuire sua eccellenza Kynval -
    Yichudim sorrise (ed era un peccato che non lo facesse più spesso, perché a parte un incisivo spaccato con un colore grigiastro, sorridere lo rendeva quasi un bell’uomo):
    - Non preoccuparti, soldato. Solo, cerca sempre di verificare le tue fonti -
    Il Giudice li fissò tutti, uno per uno, e quando arrivò a Bradamante lei fu pronta a giurare di aver visto le fiamme dell’inferno dentro le sue iridi cerulee. Poi continuò a interrogare i presenti con quello sguardo d’acciaio, forse per vedere se qualcuno osava contraddirlo (E certo, Yichudim, hanno tutti voglia di farsi confiscare le proprietà, i gradi, i privilegi, le ricchezze e l’onore per averti contraddetto).
    Quando vide che nessuno aveva obiezioni disse semplicemente:
    - Io vado a dormire. Ci vediamo domani -
    Bradamante sentì qualcuno sospirare di sollievo.
    Con un tintinnio delle suole metalliche, il profumo dell’erba spezzata da quei passi cadenzati, il Giudice sparì, l’armatura nera che come quella delle truppe di frontiera era praticamente invisibile di notte a distanza maggiore di cinque passi.
    Bradamante sospirò: sapeva già che l’aspettava una strigliata appena fosse tornata in tenda.
    - Però deve essere bello essere scortati da una persona che può assicurarti così bene protezione. Dicono anche che la sua famiglia sia di un ceppo da sempre con una predisposizione naturale alla magia. Il padre ha avviato all’accademia tanti potenti alchimisti! - commentò Huthayfa, l’altro damascano domabestie che sbucò dal nulla, le vibrisse lunghissime che gli sfioravano le scapole.
    Bradamante fece un suono che era una via di mezzo tra un gemito e un verso di dolore, come risposta.
    - Certo che tu sei proprio un’armaiola strana! Di solito hanno nutriti seguiti che li accompagnano nei loro pellegrinaggi, vesti ricche e ornate. E amano il suono della propria voce! – esclamò Aadil – Non ho mai visto un armaiolo umile come te, Bracalante!
    - Bradamante.
    - Siamo lì! – esclamò entusiasta Huthayfa e uno dei suoi lunghi baffi solleticò la sua guancia. Il damascano prese a infilzare un bastoncino lungo e sottile nel falò. Il fuoco scoppiettò e una manciata di scintille partì in tutte le direzioni. Bradamante rotolò via più velocemente che poteva, fra l’altro scoperchiando, sotto i calzoni, la crosta enorme che le era venuta con la ferita al ginocchio:
    - Porca Agata! Sta’ attento! Vuoi farmi saltare in aria?! Hai idea di quanto salnitro abbia in corpo? -
    - Scusami! Non pensavo che…
    - Non pensavi cosa? Vuoi che esploda portandomi appresso tutti voi?
    - Non intendevo…
    - Razza di imbecille! -
    Yichudim le aveva attaccato la consuetudine a quell’offesa: per lui erano tutti imbecilli, tutti minorati, tutti indegni intelletti dediti all’Impero appena facevano qualcosa di stupido. Ed era una macchia che non si toglieva più. Ora, Bradamante non era ancora arrivata a quel livello e l’onta era cancellabile, ma la parola ce l’aveva sempre lì pronta, come un grilletto.
    Huthayfa sembrava mortificato e perfino le vibrisse parevano assumere un moto discendente.
    Lei si passò una mano sulla fronte e sospirò:
    - Scusami, Huth. Sono stanca e nervosa. Non avrei dovuto offenderti così, ma, capiscimi, io rischio l’accensione delle polveri anche con il minimo scoppiettio del falò -
    Fra l’altro una settimana prima lui le aveva proposto di dormire insieme, ma per non fargli scoprire che era una Agazi, Bradamante aveva rifiutato. Non voleva umiliarlo ulteriormente.
    Gli occhi completamente azzurri del damascano si addolcirono:
    - Fa niente, Ombramante… -
    A quel punto lei scattò in piedi e se ne andò nella tenda che condivideva con il Giudice, strillando:
    - Bradamante! -
    Si allontanò, mentre parlavano e le loro voci diventavano sempre più basse e lei captò qualche frase su un soldato che era stato ritrovato misteriosamente carbonizzato a Cleycourt e i compagni ubriachi se l’erano data a gambe.
    A grandi passi superò l’alloggio di Shepard, le tende degli altri domabestie e si infilò nella propria.
    Yichudim era al centro del padiglione, inginocchiato su un tappeto; aveva gli occhi chiusi, le braccia abbandonate in grembo, il respiro regolare.
    Bradamante si mise in punta di piedi e con cautela si avvicinò al proprio giaciglio.
    - Si può sapere che diavolo hai da strillare, lì fuori? – chiese all’improvviso il Giudice.
    - Continuano a sbagliare il mio nome, Agata bastarda! Non so quante volte gliel’ho ripetuto in queste settimane!
    - E questo ti sembra un motivo valido per sbraitare e bestemmiare? – chiese l’altro, senza aprire gli occhi.
    - Non ho bestemmiato!
    - Favoloso. Non te ne rendi neanche più conto!
    - Quando ho bestemmiato?
    - Io ho sentito ben due volte e tutt’e due avevano protagonista Agata. Fa’ un po’ te. Io non credo nella Santa, ma tu dovresti avere almeno un retaggio della cultura, una stilla, un rispetto reverenziale verso di Lei – Yichudim spalancò gli occhi dalla sorprendente sfumatura violacea e la fissò come se dovesse spararle – Ma è l’unico rimasuglio che dovresti dimostrare della tua natura -
    - Non si è accorto di niente… - cominciò a scusarsi Bradamante, ma il Giudice balzò in piedi e la sollevò tenendola per la camicia, il fiato caldo che le arrossava le guance e i denti digrignati per la rabbia.
    - Sono Yichudim figlio di Azarya della lunga stirpe del rabbi Yshaq il Cieco, mistico commentatore della Midrash Konen – sibilò iracondo - E non ho la minima intenzione di mandare il mio premio a infangarsi nella Geenna solo perché una Agazi analfabeta non sa fingersi un’armaiola normale -
    Le lasciò la camicia e la mise a terra con un tonfo. Bradamante si voltò, ma lui la afferrò per le spalle e la costrinse a guardarlo in faccia; una goccia di sudore le scivolò dalla punta del naso e sentì che le labbra che si mordeva sanguinavano. Forse stava perdendo sangue anche il taglio sul ginocchio.
    - Piccola imbecille senza arte né parte! Dove credi di andare? -
    Lei deglutì nello sforzo di parlare:
    - Ti lasciavo alla tua meditazione -
    Yichudim la guardò a occhi strabuzzati, poi scoppiò a ridere stritolandole le braccia mentre la teneva ferma.
    Lei gemette per il dolore. Il Giudice smise di ridere di colpo e la fissò con sguardo assassino:
    - E’ assurdo che per un’idiota come te io ho perso il mio falcone da caccia. La vita di quel povero uccello valeva mille volte di più della tua stupida testa vuota -
    Il fatto che la offendesse a ripetizione senza minimamente alzare la voce lo rese ancora più terrificante.
    Finalmente la lasciò andare e Bradamante si massaggiò le braccia: sicuro come la morte che le sarebbero comparsi i lividi.
    - Va’ a dormire e non disturbarmi mentre medito. E non farti scoprire – Si inginocchiò nuovamente sul tappeto, chiudendo le palpebre.
    - Ho rinunciato a scopare per evitare di essere scoperta, figurati.
    - Curioso come i damascani prediligano le donne baffute e magre da far impressione –
    Bradamante si sentì ferita da quel commento, molto più che da qualsiasi offesa rivolta agli Agazi; si passò un dito sottile sul filtro nasale e sentì un po’ di peluria che stava rispuntando.
    - Sai, dovresti trombare un po’ anche tu, qualche volta! Magari saresti di umore meno fetido!
    - Grazie, ma non provo attrazione per te. Buonanotte.
    - Potresti provare con una femmina raptor, magari ti troverebbe sopportabile!
    - Mantieni le tue fantasie zoofile per te. Io non ne subisco il fascino.
    - O forse è perché sei stato poco amato da piccolo che ce l’hai col mondo? Il padre non lo ha amato e il figlio da grande diventa un nemico dell’umanità, è un classico! -
    Yichudim spalancò gli occhi e guardò Bradamante sorpreso. Corrucciò lo sguardo e schiuse le labbra facendo sibilare l’aria tra i denti:
    - Uh! Questa bruciava davvero, sto proprio andando a fuoco! Occhio a non avvicinarti o salti in aria!
    - Ma salta tu in aria! Aborto mancato! -
    Le palpebre del Giudice si ridussero a fessure:
    - Mio padre è sempre stato equanime tra me e i ragazzi dotati di particolari abilità magiche o alchemiche ed è grazie a lui che ho intrapreso la carriera militare, incitato dai suoi preziosi consigli. Se tuo padre, qualora tu l’abbia perfino conosciuto, ti ha insegnato solo a rubare non è colpa mia -
    Aveva abbandonato il tono formale, le parlava perfino della sua famiglia e della sua carriera, e questo la terrorizzò ancora di più. E quando era terrorizzata era capace di tutto, anche di orinarsi addosso.
    Quindi si tuffò sul proprio giaciglio a faccia in giù mentre Yichudim continuava a fissarla.
    I suoi occhi onniveggenti non smisero di farle sentire una bruciante striscia di lava subito sotto la nuca fino a quando l’oblio non la avvolse.
    Il giorno dopo Bradamante montò rabbiosamente sul proprio raptor; i vambraci non le erano sembrati mai così ingombranti e gli spallacci così pesanti; ginocchielli e schinieri le facevano gravare le gambe sui fianchi della bestia, che misurava tre metri dal terreno alle scapole alla base delle corte zampette anteriori.
    Subito il cuoio capelluto le sudò sotto l’elmo che le proteggeva tutta la testa.
    Tirò le redini verso destra e si assicurò di essere al centro del gruppo di domabestie, circondata sui lati, davanti e dietro dai soldati. Più in là, di fronte a loro, vide il cimiero rosso dell’elmo di Shepard e le corna dell’elmo di Yichudim, entrambi in sella.
    Il comandante sollevò un braccio dal guanto rosso e fece cenno.
    Dondolando, i raptor furono pian piano fatti partire, poi portati al passo e infine condotti a trotto.
    Le tende erano state arrotolate e assicurate alle some appese ai lati delle cavalcature; in uno degli involtoli Bradamante riconobbe il mantello del Giudice di cui lui si era liberato alla partenza e le piastre della panziera che si era dovuto togliere per facilitare i propri movimenti. Fece caso allo sbatacchiare regolare del metallo contro altro metallo e quel rumore l’accompagnò per le prime due ore di viaggio.
    Tlan. Tlan.
    Alle loro spalle i monti grigi della catena dei Cinerei li salutava, sempre più distante man mano che proseguivano verso nord, lungo l’Acheronte.
    Tlan. Tlan.
    Ora erano anche le faretre cariche di frecce a fare quel ticchettio d’inferno.
    Tlan. Tlan.
    E le scimitarre.
    Tlan. Tlan.
    Attorno a loro, le campagne floride erano un trionfo di oro, il grano, di porpora, i papaveri, di avorio, il cotone.
    Fiocchi bianchi volteggiavano e riempivano l’aria.
    E di nuovo. Tlan. Tlan.
    Contadini erano a lavoro e sembravano punti marroncini, in lontananza, chiazze scure quando erano più vicini. Colline alla loro destra occludevano l’orizzonte con i loro casali e le loro ville, macchie di alberi sparse frondeggiavano intorno agli affluenti dell’Acheronte.
    Tlan. Tlan.
    Il clangore la stava facendo impazzire: sapeva che era il nervosismo, ma non poté fare a meno di pensare che perfino Yichudim avesse preso a mimarlo con la propria voce, tanto per farle saltare i nervi.
    Brada, torna in te. Non lo farebbe mai. Andiamo! Quanti anni ha? Dodici?
    L’aria era calda e asciutta, i fiocchi di cotone impazziti facevano tempesta e si infilavano in tutti gli anfratti. Mangiarono il rancio di mezzogiorno senza smontare. Fecero ristorare i raptor ad un abbeveratoio senza smontare. Bradamante sentì un principio di emorroidi.
    Ad un certo punto, nel pomeriggio, mentre continuavano a dirigersi verso nord, il Giudice si accostò a lei.
    Puntò il guanto d’arme di fronte a loro indicando la catena montuosa che si stendeva di fronte:
    - Quelli sono i Monti di Ferro... – poi indicò una linea bianca che sbarrava la strada verso una montagna a gradoni protesa verso il paesaggio antistante - …e quello è il primo vallo di Archades, la nostra meta -
    Quella cosa bianca era un muro?
    - Dietro, il monte a gradoni è quello su cui è stata costruita Archades -
    Su quanti livelli era costruita? Si è mangiata un’intera montagna!
    Tlin. Tlan.
    E poi venne l’odore; quell’odore di oro, di ferro, di alluminio, di rame, di officine, di fabbri, di miniere e tutto quel metallo, tutta quella abbondanza, a centinaia di chilometri dalla città vera e propria, le fecero tornare in mente la sua profonda natura Agazi e il suo amore per tutto ciò che luccica e può essere usato per fare armi, armature: metallo.
    Quel profumo ferroso, come il sapore di quando sanguina una gengiva, come il liscio carezzare di una piastra d’armatura.
    Fu un attimo: strattonò le redini, scalciò i fianchi del raptor e si piegò in avanti sul collo squamoso del carnivoro, mentre il vento le rinfrescava la faccia e i domabestie imprecavano.
    Ci fu un unico pensiero (metallometallometallometallometallometalloORO) mentre il raptor scattava in avanti e lei rideva sguaiata.
    C’era un carretto: scartò di lato.
    C’era un gruppo di pellegrini: li scavalcò con un balzo del raptor tra le urla spaventate.
    La gente aumentava man mano che ci si avvicinava all’entrata del vallo; superò anche una galea sull’Acheronte; l’acqua scintillava come argento.
    Argento. Metallo.
    Metallometallometallometallo.
    Yichudim comparve alla sua sinistra con l’aria di chi sta per commettere un genocidio:
    - Ferma questa bestia maledetta, razza di debosciata senza cervello! -
    Aadil, Huthayfa e Sartori la affiancarono e gridarono incitamenti, divertiti e incoscienti.
    Il comandante Shepard li superò sulla destra sbraitando qualcosa su “insubordinazione”, “frustate” e “confisca”.
    Un gruppo di Voltur si gettò di lato per evitare l’investimento.
    I campi lasciarono posto ad una spianata di fronte al vallo e la porta che avevano di fronte si innalzava per trenta metri, un drago rampante che ondeggiava appeso all’asta centrale sul sentiero di guardia.
    Mancavano un centinaio di passi, ormai, e qualcuno urlò dalla guardiola:
    - Altolà!
    - Per amor della Dea, ferma il raptor! – urlò di rimbalzo Yichudim, le redini strette tra i guanti d’arme.
    Ma il metallo continuava a chiamare: era lì, l’aspettava, luccicante, invitante.
    I due damascani e Sartori rallentarono e Shepard li raggiunse. Rimasero lei e il Giudice. Il Giudice e lei.
    Una mezza lusertiana con gli zigomi spruzzati di chiazze nere e le labbra bluastre, gli occhi dalla pupilla verticale gridò tirando fuori la lunga lingua biforcuta.
    Lei e Yichudim la superarono una a destra e uno a sinistra.
    Lo schiocco delle zampe dei raptor sul selciato, i balestrieri, i corazzieri e le guardie alla porta e sulle mura che li puntavano. I viaggiatori sulla strada che li fissavano immobili che si susseguivano ai lati della loro carica.
    Bradamante si fermò. Yichudim strattonò le redini e l’inerzia lo fece bloccare qualche falcata più in là.
    Quando le si accostò era fuori di sé, il raptor che schiumava:
    - Tu sei una povera pazza – sputò dall’ira - Che diavolo ti è preso? -
    Sentiva il rumore delle armerie, dei fabbri, delle incudini e dei martelli, il cigolare nelle miniere, i picconi sulle pepite. E anche il rumore dei balestrieri che ancora puntavano i quadrucci contro di loro.
    Tutto sapeva di metallo. Anche se alcuni erano a centinaia di chilometri, erano giacimenti così massicci e la città era così elettrica che...
    Quella Archades, quella capitale sembrava avere l’aria elettrica o carica di quell’odore. Una specie di energia sotterranea che le faceva pulsare i tentacoli sul seno e far schioccare la lingua dalla sete.
    In un moto di follia delirante avrebbe leccato ogni centimetro della panziera di Yichudim.
    Si era sentita così solo quando, da ubriaca, aveva festeggiato prima della grande evasione. Era ebbra.
    Ebbra dei vapori di metallo.
    E, di nuovo, Sant’Agata la chiamò dal profondo dell’anima che ancora non era stata inglobata dal demone: cantò in un punto remoto della sua mente assieme all’usurpatore.
    Bradamante smontò dal raptor, le cosce e il sedere indolensiti:
    - C’è odore di ferro. E oro. E argento – Si portò le mani alle tempie e toccò gli stivali a Yichudim, nelle staffe, guardandolo implorante. Lui scacciò il suo palmo e smontò a propria volta dalla cavalcatura.
    Bradamante si aggrappò a lui per non perdere l’equilibrio e si tolse l’elmo, facendolo rotolare a terra.
    Respirò a fondo, ma l’odore degli spallacci di Yichudim non migliorò la situazione:
    - Senti l’aria pesante, vero? -
    Lei ansimò:
    - Sì -
    Lui la sorresse da sotto le braccia:
    - L’ho sentita anche io, tutte le volte che sono venuto qui. Ma penso che solo chi ha una grande familiarità con la magia, l’alchimia o i demoni possa avvertire la stessa cosa – le sussurrò all’orecchio.
    Bradamante si sciolse in lacrime bianche di salnitro:
    - Non ce la faccio. Non posso entrare lì dentro senza impazzire -
    Singhiozzò.
    Lui la cinse in uno strano abbraccio che sembrava più una gabbia che un moto di morbido affetto e urlò verso le guardie:
    - Tutto a posto! – staccò un braccio da lei e lo allungò verso una saccoccia appesa al raptor – Ho un lasciapassare! – Tra la gente di fronte alla porta si fecero largo tre corazzieri, il gonnellino rosso sgargiante e il viso celato dall’elmo.
    Uno dei tre chiese se ci fosse bisogno di un cerusico o di un mago naturale per qualche rimedio corroborante; Yichudim declinò gentilmente senza lasciar andare Bradamante.
    Sentì le lacrime scorrerle sul viso e impiastricciarle la pelle.
    Shepard conduceva il proprio raptor a piedi tenendolo per le briglie:
    - Che cos’è successo?
    - Ho idea che non fare pause durante il viaggio non sia stata una bella idea. Le donne non sopportano i viaggi lunghi.
    - Vallo a dire a Tosca Volterra! Quella donna sembra fatta di acciaio, tanto è resistente! – ribatté il comandante.
    Tosca. Tosca.
    Non era quella virago alta due metri che stava anche nella tenda degli strateghi, quand’era stata scoperta e arrestata?
    Yichudim abbassò il volto alla stessa altezza del suo e la guardò intensamente negli occhi:
    - Ora devi prestarmi attenzione, Bradamante -
    Mentre rimetteva a posto il lasciapassare, si tolse l’elmo cornuto e la fece girare verso il monte a gradoni su cui sorgeva quella città dall’aria carica di metallo.
    - Fissa il punto più alto e non spaventarti -
    ”Non spaventarti” è il modo di dire migliore per spaventarmi a morte.
    Le infilò il proprio elmo pesante; quando la calotta aderì alla sua nuca, la vista di Bradamante si snebbiò e lei sussultò per l’improvviso cambiamento: adesso le chiazze scure che aveva visto senza la celata a gravarle sulla testa erano nitide nicchie sulle mura concentriche che salivano verso la sommità del monte; su quella sommità, oh, incredibile, vedeva le persone. E se voleva poteva anche concentrarsi sui loro volti. E quel palazzo? Era enorme, marmoreo, con delle colonne ciclopiche sul porticato frontale e tutto era…
    - Magnifico – sussurrò lei.
    - Sì, e se provi a rubarmi quest’eredità familiare che il mio non proprio amato padre mi ha passato ti prenderò e ti taglierò le mani – rispose Yichudim – Ora dalla sommità e dal palazzo del Magisterium abbassa lo sguardo sul secondo gradone dall’alto -
    Vide alberi, tanti alberi; e sugli alberi mele; e siepi e giochi d’acqua; fiori. Però mantenere quel livello di dettaglio iniziava a farle male alla testa. Si allontanò col pensiero da quel giardino paradisiaco e le persone si sottrassero alla sua percezione fino a scomparire e le chiazze tornarono chiazze.
    - Quello è l’Eden. E’ la nostra meta. Ancora dista trecento miglia. Pensi di farcela a raggiungerlo senza andare in crisi? -
    Tutta quella distanza. E man mano si sarebbe avvicinata ai giacimenti e allora l’astinenza si sarebbe fatta sentire di più e le pulsazioni sarebbero aumentate e quell’aria, quella cappa di elettricità, l’avrebbe fatta impazzire.
    - Con tutto il mio cuore no – rispose cupa Bradamante.
    Yichudim le sfilò dolcemente l’elmo miracoloso.
    - Lo supponevo. Sapevo che sarei stato costretto a questo -
    Bradamante si stava ancora abituando alla sua vista sfuocata quando chiese:
    - Questo cosa?
    - Questo -
    Sentì un colpo alla base della testa e tutto divenne nero puntinato di bianco.

    Edited by Nightsong - 21/7/2014, 19:01
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    Sollevò gli occhi dal tomo dalla rilegatura in cuoio trattato che recava il disegno di una coscia di gru arrosto, gettando un'occhiata fuori dalle porte finestre che davano sul terrazzo di quella camera rettangolare.
    Comodamente seduto su una poltrona di legno ambrato, coperta da velluto rosso, si voltò e lanciò uno sguardo verso il fondo della piccola ma lussuosa stanza degli ospiti.
    Due colonne di lucido marmo rossiccio, separate da un caminetto protetto da un parascintille annerito e in cui crepitava una debole fiamma arancione, decoravano la parete più lunga alla sua destra. Una doppia porta in mogano occupava il centro del muro dall'altra parte della stanza, mentre un letto a baldacchino in legno massello era posto contro il centro della parete a sinistra.
    Adagiata sulle lenzuola, con ancora indosso la camicia e le brache da cavalcata, c'era la Agazi che dormiva beata.
    Anche se aveva naso e bocca coperti da un cencio umido russava come un mantice da forgia, rilevò Kynval sospirando.
    Si tirò in piedi, posando il tomo dai bordi dorati sul comodino accanto al letto e lisciandosi le due code della giubba cremisi.
    Allungò la mano verso il taschino nei pantaloni, traendone l'orologio d'oro bianco e dando un'occhiata alle lancette.
    Se non aveva fatto male i suoi conti, cosa molto probabile vista la facilità con cui il segnatempo miniaturizzato sballava, era questione di attimi.
    Ripose l'orologio, si sistemò baffi e pizzetto, raddrizzò l'alto colletto della giubba e poi posò la mano sinistra sul fodero in candido legno della spada da lato che gli pendeva al fianco.
    Con gli Agazi era sempre meglio esser preparati a qualche giochetto con i coltelli a scatto. Con gli Armaioli era buona cosa esser sempre pronti ad uno scontro verbale.
    Con un'Armaiola Agazi, allora, tanto valeva esser pronti ad uno scontro all'ultimo sangue.
    La donna distesa sul letto smise di colpo d'emanare rumori da officina, e aprì gli occhi.
    Il suo primo sbadiglio le fece aspirare lo straccio umido che aveva sulla bocca, provocandole un eccesso di tosse.
    « Agata Bastarda! » esclamò l'Armaiola, sputando lo straccio a terra. « Cosa diavolo avevo in faccia? »
    Sì: probabilmente un semplice "dove mi trovo?" era chieder troppo.
    Pregò la Dea che nessuno fuori dalla stanza avesse udito quella bestemmia.
    « Uno straccio imbevuto di sonnifero e profumo » rispose l'imperatore, secco.
    La Agazi si voltò di colpo verso il sovrano, sbiancando visibilmente.
    « Ben svegliata e benvenuta all'Eden, Clarice Agazi. O forse dovrei chiamarti Bradamante? » aggiunse il sovrano, profondendosi in un sorriso sardonico.
    Bradamante si tirò in piedi di scatto, si voltò verso le portefinestre e scattò rapida come un gatto.
    Kynval alzò il braccio e schioccò le dita.
    Una scintilla arancione gli partì dalla mano e un muro di fiamme roventi si sollevò sul parapetto del terrazzo.
    La Agazi inchiodò a meno di un metro dalla porta finestra, gettandosi indietro spaventata.
    Le fiamme si estinsero nel giro di un secondo e l'Armaiola si voltò lentamente verso il sovrano, che attendeva con il braccio destro ancora proteso in avanti e le dita fumanti.
    « Eminenza! » gridarono due Corazzieri della Guardia di Palazzo, entrando di corsa nella stanza con le flamberghe strette in pugno e i mantelli cremisi delle alte uniformi svolazzanti.
    « Abbiamo sentito una deflagrazione, Eminenza » disse il primo, lanciando uno sguardo verso i fili di fumo nero che si innalzavano al parapetto.
    « Nessun problema » replicò Kynval, facendo loro un cenno con la mano. « Attendete fuori, qui me la cavo da solo. »
    « Sì, Eminenza » dissero i due militari, facendo il saluto e uscendo chiudendosi la porta alle spalle.
    Bradamante piantò i suoi occhi gialli dritti in quelli neri del sovrano.
    « Mi avete messo nel sacco, di nuovo, Eminenza » asserì lei, con tono rassegnato.
    « La prossima volta ti lascerò gettar liberamente la tua anima nella Gehenna » replicò lui, abbassando il braccio destro. « Sempre che in meno di cinque secondi non impari a volare ho seri dubbi sulle tue probabilità di sopravvivenza ad un salto del genere. »
    Bradamante sospirò.
    « Dunque non mi vuoi uccidere? » domandò.
    « Se avessi voluto farlo saresti già morta da tempo » rispose lui.
    « E non mi sarei preso nemmeno la briga di farti avere i mezzi per evadere di prigione » aggiunse, indicando con un cenno del capo il libro di cucina che aveva posato sul comodino accanto al letto poco prima.
    Bradamante si voltò verso il tomo.
    « Ma...? » disse perplessa, afferrando il volumetto e rigirandoselo tra le mani. « Un'altra copia? »
    « No » rispose il sovrano, sorridendo. « Ne esistono solo due copie al mondo. Una è quella che hai in mano, e l'altra è chiusa a chiave nel mio ufficio più o meno da quando è stata scritta. »
    L'Armaiola rimise il tomo dove l'aveva preso.
    « Cosa vuoi da me? » domandò.
    « Te lo spiegherò mentre ci rechiamo alla Sala da Pranzo. È bene che tu mangi qualcosa. » rispose Kynval. « Sei magra da far spavento, e tra non molto sarà ora di cena. Sarebbe scortese non invitarti al desco del palazzo. »
    La donna si morse il labbro, ferendosi.
    Più per lo stupore della cortesia che per lo spavento, probabilmente.
    Uno spruzzo di salnitro cadde sul pavimento.
    Kynval andò a recuperare il libro di cucina, e lo gettò nel camino.
    Bradamante sussultò.
    « Ma che diavolo...? »
    Uno schiocco di dita e le fiamme avvamparono violente, riducendo il volume in cenere.
    « Da questa parte » disse l'imperatore, spalancando la porta e incamminandosi fuori ignorando lo sguardo scioccato della Agazi. « Ti faccio strada. »
    Bradamante, un poco titubante, lo seguì.
    I corazzieri che avevano fatto irruzione nella stanza si misero in coda ai due e Bradamante, un po' per allontanarsi dai soldati con le lame a mezzaluna sull'elmo, un po' per poter parlare meglio, affiancò il sovrano.
    « Suppongo che tu voglia domandarmi la ragione per cui ho chiesto al Giudice Yichudim di trovarti e portarti fin qui » disse l'imperatore, voltando la testa verso la donna.
    « Sì » replicò lei. « Yichudim non mi ha rivelato nulla, durante il viaggio. Sembrava che nemmeno lui sapesse cosa stesse facendo e perché. »
    « Yichudim, oltre ad essere un chierico cavaliere ed un Giudice, è anche molto bravo a far finta di non saper nulla » sorrise lui. « Non è stupido, e anche se gli ho detto ben poco credo abbia capito quel che intendo fare. Se non ha fatto nulla per impedirlo, credo allora di avere il suo appoggio. »
    Voltarono in un corridoio più largo degli altri, sorpassando un gruppo di corazzieri e un lungo finestrone a mosaico completamente istoriato.
    « Tu sei la chiave di volta di un piano che, spero, aiuterà il continente a liberarsi di un problema quanto mai paralizzante e fastidioso. Oltre che pericoloso... » aggiunse il sovrano.
    « Cioè? » domandò la Agazi, incuriosita.
    « Immagino tu conosca l'Ordine degli Armaioli » rispose lui.
    Bradamante sollevò un sopracciglio.
    « E sono un problema? » chiede, perplessa. « Credevo che voi imperiali foste ben felici di fare affari con loro. »
    « Felici come potrebbero esserlo dei prigionieri che ricevono frustate tutto il giorno » replicò lui. « Sono un problema, non solo per l'Impero, ma per qualsiasi Regno. Nessuna monarchia o repubblica può sopravvivere senza il loro benestare. »
    « Perché? » domandò la Agazi.
    « Hanno la Polvere da Sparo. Un elemento essenziale per la costruzione di armi che trapassano qualsiasi corazza, di cui sono gli unici costruttori tra l'altro, e che bruciando si alimenta della magia stessa, annullandola. » spiegò. « Si tratta di qualcosa in grado di sconvolgere lo status quo, facendo pendere l'ago della bilancia verso il regno che ha il favore dell'Ordine e quindi la sua polvere da sparo. Se loro decidono che il tuo regno deve cadere, allora, gli basta consegnare la polvere a qualche altro stato vicino e aspettare che tu venga inevitabilmente invaso e conquistato. Che un ordine come quello degli Armaioli possa permettersi di manipolare il mondo a suo piacimento, facendo cadere regni, scatenando guerre e provocando la morte di centinaia di ignari innocenti per il loro esclusivo tornaconto, è qualcosa di inammissibile e intollerabile. Per il bene di tutte le nazioni presenti e future vanno estirpati e noi lo faremo, qui, ad Archades. »
    Bradamante ridacchiò.
    « E perché non li fai arrestare e giustiziare tutti? » domando, con tono provocatorio. « Puoi farlo. »
    « Violando gli articoli quattro e sei del quarto capo di una Legge che rappresenta l'unica parvenza di vera costituzionalità in questo mondo, colmo di Regni dispotici e Repubbliche false come una moneta bucata da tre Dragoni » rispose lui, con tono pacato. « Non intendo infrangere la Legge: li voglio portare in giudizio in maniera assolutamente legale e tu, Bradamante Agazi, sei colei che mi permetterà di farlo. »
    « In che modo? » domandò lei. « E soprattutto: perché mai una Agazi dovrebbe aiutarti? »
    « Perché è grazie a loro se siete finiti tutti quanti deportati, forse? » replicò lui, con tono sadico.
    Bradamante strabuzzò gli occhi.
    « Spiegati » disse.
    « Suvvia: credi davvero che prima di deportarvi non sapessimo dove voi Agazi abitavate, dove vi radunavate, quanti eravate, cosa facevate e come lo facevate? » replicò lui. « Il Magisterium è riuscito a scoprire gli orari in cui il Gran Khan dei Voltur mangia, fa i suoi bisogni e pure con quale mano è solito masturbarsi. Sei seriamente convinta che in quindici anni non abbiamo tenuto d'occhio la vostra comunità di Onesti Criminali sparsi in ogni angolo dell'Impero? Semplicemente non ci siamo mai presi la briga di piombarvi in casa ed arrestarvi tutti, prima dell'anno scorso, limitandoci a incarcerare i più idioti di voi che si facevano pescare con le mani nel sacco. »
    La Agazi era rimasta a bocca aperta.
    « Ma perché? » domandò, curiosa.
    « Perché senza saperlo voi, e la vostra passione per il metallo e gli oggetti di valore, eravate alleati preziosi per le autorità di qualsiasi regno anche se nessun monarca sarebbe mai venuto a dirvelo. » rispose lui.
    « Alleati preziosi?! » esclamò Bradamante, stupita. « Nononono! Noi Agazi li derubiamo i funzionari dell'Impero, non ci alleeremmo mai con loro! »
    « Proprio così » rispose il sovrano, sorridendo. « Assalire un ufficio pubblico, o una caserma, però è qualcosa di rischioso e poco utile. Al contrario le ville degli Armaioli, con le loro scorte di preziosissima polvere da sparo e fucili, sono un bersaglio decisamente più allettante, semplice e remunerativo. Non hanno protezioni magiche e le guardie sono facilmente corrompibili, a differenza dei militari che rischiano la testa se solo guardano male un sacchetto d'oro. Inoltre ci sono tantissimi gruppi di ribelli e dissidenti che bramano il possesso di un fucile, e della polvere per farlo funzionare che chi è stato in battaglia ben sa esser sempre troppo poca. Voi Agazi non siete stupidi: polvere nera e armi da fuoco sul mercato nero valgono tonnellate d'oro e quindi di cibo, inoltre non vedo la ragione per cui anche l'Impero non debba sfruttare questo canale di rifornimento. »
    Bradamante si morse il labbro.
    « Aspetta. Tu mi stai dicendo che sfruttavi noi Agazi a nostra insaputa come tramite per rifornire le tue truppe di armi da fuoco e polvere da sparo... »
    « E tenere gli Armaioli sul chi vive, in uno stato di paura e quindi sotto controllo, svincolando il Governo Imperiale dal loro volere » completò lui, secco. « Ammetto che buona parte delle persone che vi fornivano informazioni sui bersagli che volevate colpire, indicandovi dove si trovassero le guardie giurate, gli accessi secondari, le postazioni di controllo e i percorsi dei soldati imperiali che facevano la ronza in zona, erano Giudici del Magisterium in incognito. »
    La Agazi rimase per qualche secondo in silenzio.
    Sorpassarono un altro corridoio e l'ennesimo presidio di Guardie di Palazzo, attirando gli sguardi curiosi dei soldati scelti della Guardia Imperiale.
    « Dunque, il tentato avvelenamento...? » domandò Bradamante, dopo un po'.
    « Ti hanno incastrata » rispose lui. « Gli Armaioli avevano capito tutto, e volevano togliere di mezzo te e i tuoi parenti. Sapevano di una Agazi che lavorava come cuoca alla magione di Lord Helias: con questo presupposto inscenare il mio tentato avvelenamento ed accusare te e i tuoi parenti di Alto Tradimento, per gli Armaioli, è stato un giochetto. Non ho potuto far altro che deportarvi tutti quanti, e per questo dovresti ringraziarmi: la loro idea originale era di sterminarvi nelle vostre case, mentre dormivate. »
    « Sant'Agata benedetta... » commentò lei, sconvolta.
    « Ho anche tentato di liberarvi, ma la cosa non ha funzionato » continuò l'imperatore. « Il Campo del Khalak è stato scelto proprio perché era vicino al Regno di Cleycourt, libero dall'influenza degli Armaioli e con cui l'Impero godeva di ottimi rapporti: l'idea era di farvi uscire in segreto dal Khalak verso Cleycourt, e da lì lasciarvi liberi. A quel punto Artosius vi avrebbe rispedito entro i nostri ricchi confini a rubare ove più era necessaria la vostra opera, e gli Armaioli avrebbero pensato che foste semplicemente Agazi non ancora catturati o sfuggiti alla deportazione. Il Giudice Magister Absalom Cuor d'Acciaio, che era il responsabile di tutto quel che concerneva voi Agazi, era in visita diplomatica a Cleycourt proprio per accordarsi con il Re di questa operazione, ma è stato ucciso. Per insabbiare la cosa, ed impedire che gli Armaioli lo venissero a sapere, sono stato costretto ad invadere il regno e sviare tutta l'attenzione sull'aggressione, facendola passare come una rappresaglia per la morte di Absalom. Che tu lo voglia o no, Bradamante, sei il punto focale di tutta questa situazione. Quasi avrei preferito che tu avessi continuato a rubare, piuttosto che vederti lavorare onestamente. »
    « Ho liberato i miei parenti dal campo. A cosa ti servo ancora io? » domandò la donna.
    « Tu sei un'Armaiola, hai eseguito il rito contenuto sul libro che avevo fatto introdurre nel campo e hai fatto saltare le mura di una prigione di massima sicurezza con delle bombe » rispose lui. « Grazie a te possiamo ripagare gli Armaioli con la loro stessa moneta: testimoni sono pronti a giurare di aver visto un'Armaiola guidare la ribellione del campo, e grazie a te potrò accusare pubblicamente l'Ordine di Alto Tradimento e Attentato alla Sicurezza dello Stato. l'Impero è ricchissimo, e nessun armaiolo si è arrischiato ad andate a vivere presso i Voltur: qui la Legge li protegge, oltre il confine no. Ma ben presto l'Impero Archadiano diverrà una immensa e mortale trappola per il loro ordine, te l'assicuro. »
    « Santo cielo... » commentò la Agazi, mettendosi le mani nei capelli senza smettere di camminare. « Ma perché proprio a me? »
    « Er hat den kürzeren gezogen » disse l'Imperatore, sospirando.
    « Cosa hai detto? » domandò la donna, perplessa.
    « Un detto nanico, piuttosto azzeccato direi: fondamentalmente sei quella che ha estratto la pagliuzza più corta dal mucchio. » rispose lui. « Tra tutti quelli che speravo avrebbero decifrato il libro, ed eseguito il rito, non mi aspettavo saresti stata tu proprio tu. I damascani, tra l'altro, si sono fatti scoprire dalle guardie della prigione e confiscare il tomo. Riportarlo entro le mura non è stato semplice. »
    « Ma aspetta » lo interruppe la Agazi. « È stato Florian a riportare il libro nella prigione... Come? »
    « Convincerlo a collaborare, e a tapparsi la bocca, non è stato difficile: ho garantito a lui e alla sua amata un salvacondotto e protezione. Ora sono... al sicuro. » spiegò Kynval.
    Il sovrano si arrestò davanti alla porta della Sala da Pranzo, e Bradamante fece lo stesso.
    « Come faccio ad esser sicura che mi stai dicendo la verità? » domandò la Agazi, perplessa. « Chi mi dice che tu non abbia fatto fuori Angelica e Florian, e mi stia raccontando un sacco di menzogne? »
    L'imperatore rise di gusto.
    « Bradamante, io ho l'abitudine di non mentire mai » disse, spalancando la porta della Sala da Pranzo.
    « Finalmente ti sei svegliata! » squittì una voce femminile dall'interno della stanza.
    « Angelica?! » esclamò stupita Bradamante, prima che l'altra Agazi le saltasse addosso abbracciandola.
    « Temevo non ti saresti più risvegliata » disse la bionda, staccandosi da lei.
    Bradamante voltò la testa verso il sovrano, ancora sconcertata dalla situazione.
    Kynval non le lasciò tempo di dire nulla.
    « La mia proposta è semplice » disse. « Permettimi di sfruttare la tua fuga dal campo e la tua immagine pubblica di Armaiola, aiutami a togliere di mezzo l'Ordine degli Armaioli, e io garantirò a te e a tutti i tuoi parenti la grazia imperiale e quindi la libertà. »
    « Ti sto offrendo una sublime vendetta, e su un piatto d'argento per giunta. Allora, accetti la mia proposta? » concluse, sorridendo e allungando la mano verso di lei...
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    Batté più volte il pugno sul bancone di legno finché non sentì la mano destra pulsare, ma tra le voci degli avventori che riempivano il locale e il fatto che la testa fosse l’unica parte del suo corpo che l’oste avrebbe visto, nessuno pareva notarla.
    L’odore di muffa che impregnava le pareti di legno, sudice e nere, miscelato ai fumi densi e chiari, dalla nota pungente e penetrante, le inondò le narici: in quella bettola non vi era alcuna finestra; solo la porta d’ingresso aveva un’apertura tondeggiante, il vetro sporco e macchiato da cui filtravano pochi raggi del sole.
    “In che diavolo di posto mi sono andata a ficcare?” pensò, guardandosi attorno.
    Virginia infilò la mano nella tasca dei calzoni, prese la sacca di pelle contenuta in essa, e dopo averne controllato l’interno, gettò due monete sul bancone: al tintinnio dell’oro sul legno, una figura tarchiata, con pochi capelli in testa e un paio di baffi spessi, apparve.
    «Finalmente, cominciavo a credere che mi stesse ignorando.» esordì Virginia, accennando un sorriso davanti al tarchiato gestore del locale.
    «Vattene: questo non è un posto per ragazzine.» disse l’uomo, la voce cavernosa, le rughe del volto che accentuavano quell’espressione dura, da cane rabbioso.
    «Sono sicura che riuscirò a farle cambiare idea.» rispose impassibile, riversando il contenuto rimanente della sacca «Avrei alcune domande da farle e non ho tempo da perdere.»
    Lo sguardo dell’oste cadde subito sui cinque dragoni distesi sul bancone, gli occhi neri come onici che fissavano avidamente il drago rampante dei Solidor e il numero cento impressi a suo tempo nell’oro fuso; allungò il braccio e ne prese una, lasciandosi andare in un largo sorriso.
    «Capisco.» rispose, rigirando la moneta tra le mani «Se non ti dispiace, vorrei pesarle.»
    Virginia annuì e l’uomo sparì nel retro bottega, tornando poco dopo con una bilancia d’ottone; la poggiò sul bancone e sistemò cinque pesi sul braccio sinistro, le monete, in quello destro.
    “Non si fida proprio… beh, anch’io mi sarei comportata allo stesso modo se una ragazzina si fosse presentata con una somma simile.” pensò mentre seguiva il processo di pesatura.
    Quando l’oste si ritenne soddisfatto, portò via la bilancia e guardò Virginia negli occhi.
    «Va bene. Parliamo.» disse, intascando i dragoni d’oro.
    «Per prima cosa, vorrei da bere. Mi porti l’alcolico più forte che il suo locale ha da offrire e non lo schifo che vende alla plebaglia; poi avremo modo di discutere.»
    L’oste si voltò e scelse una delle bottiglie tra le molte presenti sulla mensola dietro il bancone.
    «Da queste parti è chiamato “Alito di fuoco”: un liquore ottenuto per effusione, distillando un centinaio di erbe aromatiche.» disse, stappando una bottiglia scura, dal collo lungo e stretto, e versandone il contenuto in una coppa di legno leggermente consunta: il liquore che né uscì era chiaro come acqua cristallina e il profumo talmente inteso e bruciante che Virginia sentì le narici prenderle fuoco.
    «Esiste un modo per oltrepassare il Muro della Confessione, ovviamente, senza confessarsi?» chiese, sollevando la coppa e mandando giù il liquore d’erbe in un sol sorso: il suo corpo non la ringraziò di quel gesto.
    “Uhm… alito di fuoco.” pensò Virginia sentendo la bocca, la gola e persino lo stomaco, bruciare intensamente come alberi in balia di un incendio; la testa le pulsava, tossì più volte e dovette attendere diversi minuti prima che riuscisse nuovamente a parlare.
    «Non ha nulla da dirmi?» domandò, schiarendosi la voce con l’ennesimo colpo di tosse.
    «Quelle mura sono sorvegliate giorno e notte, le Guardie Imperiali armate fino ai denti, e che io sappia nessuno, nemmeno l’Imperatore, l’ha mai attraversato senza confessarsi.»
    “Perciò l’idea di usare Kynval come referente potrebbe rivelarsi inutile” pensò, grattandosi la nuca “Dannazione, ed io che speravo di passare senza raccontare la storia della mia vita.”
    Virginia prese la coppa vuota, l’agitò, e prontamente l’uomo, la riempì.
    «Mi sta dicendo che l’unica cosa che posso fare è confessarmi? Questo poteva dirmelo persino un gatto per strada.» commentò aspra, bevendo un po’ del liquore per addolcire la bocca.
    «Allora non ti resta che tornare a casa con la coda tra le gambe.»
    “Ha il Muro della Confessione a poche iarde da ‘sta bettola e in pratica, non ha da dirmi nulla.” pensò furiosa, stringendo la coppa e provocando delle spaccature nere sulla sua superfice; il liquore al suo interno ribollì e Virginia, prontamente, finì quel che ne rimaneva, ritrovandosi pervasa dall’aroma e il sapore sprigionato dalla bevanda riscaldata.
    «Ha ragione… ora so davvero cosa fare ed è solo merito suo: grazie.» disse, poggiando la coppa sul bancone e allungando il braccio verso l’uomo, in punta di piedi sulla pavimentazione di pietra, affinché riuscisse a stringergli la mano e i muscoli del petto doloranti nel punto in cui Astrea l’aveva colpita, lasciandole un livido giallastro, grande più del suo pugno.
    L’oste titubò per un attimo, corrugando la fronte innanzi al suo falso sorriso e la mano tesa; quando questi si decise e gliela strinse, ringraziandola a sua volta, quel sorriso si tramutò in un ghigno, e l’uomo cadde a terra, rigido come il tronco di un albero abbattuto da un fulmine, sollevando un velo di polvere a seguito del tonfo.
    “Col cavolo che ti lascio tutte quelle monete, bastardo!” pensò Virginia, girando attorno al bancone e avvicinandosi al corpo.
    Controllò il farsetto che questi indossava, poi i calzoni, trovando le cinque monete d’oro; le rimise nella sacca di pelle, si alzò da terra e prese il liquore d’alito di fuoco.
    “Questa è per il viaggio.” pensò, agitando la bottiglia scura per capire quanto ce n’era.
    In tutta calma, raccolse il sacco di iuta lasciato davanti al bancone e attraversò il salone; ad ogni passo, il suono dei suoi stivali che picchiettavano sulla pietra, udiva il mormorio della gente: parlavano di lei, e quando si voltò in direzione di quelle voci, molti abbassarono lo sguardo tornando al loro boccale di birra o simili.
    “Qualcuno mi ha visto… beh, non importa, tanto non muoveranno un solo muscolo.”
    Uscita dal locale, i raggi del sole del mezzogiorno le inondarono il viso candido; Virginia sbatté diverse volte le palpebre e quando si abituò alla luce esterna, con la mano davanti alla fronte ammirò il muro della Confessione alla sua destra, immenso e magnifico nel suo marmo bianco.
    Nascoste tra i merli ghibellini dell’alta cinta muraria, notò le armature nere della Guardia Imperiale e le alabarde in loro possesso che svettavano verso il cielo.
    Abbassando lo sguardo, vide che quattro corazzieri, anch’essi armati d’alabarda, presidiavano una grande saracinesca, completamente in metallo, alta trenta piedi e larga almeno la metà.
    “Oltrepassiamolo e non pensiamoci più.” pensò, avviandosi verso il Muro della Confessione, seguendo la via lastricata, gremita di gente, con il sacco di iuta in spalla e la bottiglia al suo interno che oscillava ad ogni movimento.
    Le abitazioni in mattoni e dai tetti di legno attorno a lei, lentamente lasciarono spazio a una zona più ampia, una strada che accompagnava l’anello fortificato in tutta la sua lunghezza, e giunta ai piedi del muro, Virginia rimase ancor più esterrefatta dalla sua imponenza e dallo splendido bianco che scintillava sotto i raggi del sole: nel frattempo una delle guardie, dopo averla notata, si avvicinò a lei, attirando la sua attenzione quando udì i pezzi dell’armatura imperiale tintinnare tra di loro, producendo un rumore alquanto fastidioso.
    «Tutto bene? Per caso ti sei persa?» le domandò con gentilezza «Dove sono i tuoi genitori?»
    «Oh, io non ho… no… sono qui perché voglio passare, ovviamente.» esclamò Virginia.
    «Se queste sono le tue intenzioni, informerò il Giudice Bauer della tua presenza.» rispose la guardia, porgendole poi i saluti e voltandosi, salendo la scalinata che conduceva a una delle porte d’accesso al resto della città.
    Poco dopo, la saracinesca s’alzò, lasciando spazio alla figura di un uomo in armatura nera, scintillante, e l’elmo cornuto.
    Il mantello cremisi sulle sue spalle, ondeggiava ad ogni passo, mentre scendeva le scale di marmo bianco, riducendo la distanza che li separava.
    «Non capita spesso che una ragazza si presenti da sola, davanti al Muro della Confessione.» esordì il Giudice Bauer, un gigante d’acciaio, le alte corna dall’estremità ricurve dell’elmo che accentuavano le sue dimensioni, armato di flamberga; gli spallacci e gli schinieri erano ornati da linee rosse che come lingue di fuoco si diramavano lungo la superficie metallica.
    «Come dovresti sapere, persino una della tua età è sottoposta alla confessione: non c’è alcuna distinzione o privilegio» continuò l’uomo «Perciò se sei pronta, possiamo cominciare.»
    Virginia fece di sì con la testa e pensò attentamente alle parole da dire all’uomo in armatura.
    «Il mio nome è Virginia Celi, figlia di Emanuele Celi, noto mercante del villaggio Acquaviva che spesso commerciava con la capitale, finché non venne ucciso da alcuni membri dell’Occhio Insanguinato, assieme a mia madre» rispose decisa, trattenendo a stento le lacrime, gli occhi lucidi, pensando al corpo della sua mamma riverso a terra «Ho viaggiato fin qui, attraversando una vastissima porzione dell’Impero, con il solo desiderio d’incontrare l’Imperatore: Kynval Solidor, affinché mi aiuti a scoprire chi si cela dietro quel maledetto culto.»
    Il Giudice Bauer si prese un paio di minuti prima di rivelarle l’esito.
    «La tua Confessione è veritiera, ed io ti assolvo: non c’è nulla che t’impedisca di oltrepassare questa cinta muraria, ma prima che tu vada, vorrei controllare il contenuto di quella sacca.» disse, indicando il sacco di iuta che nell’attesa aveva poggiato a terra, davanti ai suoi piedi.
    «Va bene: faccia pure.» disse Virginia, arretrando in un passo.
    Dopo aver slegato il laccio che teneva chiuso il sacco, il Giudice tirò fuori una pipa da oppio, la rigirò tra le mani poi, la poggiò a terra; successivamente prese la lunga bottiglia di alito di fuoco, l’aprì, sentendone l’odore intendo e bruciante, e la sistemò accanto alla pipa: a quel punto, Virginia era certa che dentro l’elmo cornuto, l’uomo stesse strabuzzando gli occhi.
    Assieme al libro nero senza parole, ciuffi di paglia e fieno sbucarono dal sacco nel momento stesso in cui il Giudice tirò fuori il tomo, e come neve in pieno inverno, quei numerosi fili d’erba caddero e coprirono la pipa e la bottiglia di liquore, nascondendoli.
    «E questo che cosa sarebbe? Che utilità ha un libro se non c’è scritto nulla?» domando l’uomo, aprendolo e notando che non vi era un filo d’inchiostro in nessuna delle pagine.
    «È il mio regalo per l’Imperatore, sperando che abbia più fortuna di me.» commentò Virginia.
    Il Giudice esaminò il libro ancora una volta, prima di riporlo dentro al sacco, assieme alla pipa.
    «Non preoccuparti, questa non ha influito sulla tua confessione: le tue parole erano comunque sincere.» disse, prendendo la bottiglia e agitandola.
    Con un velo d’imbarazzo, Virginia rubò il liquore dalle mani del Giudice.
    «Non posso farci nulla se mi piace.» bisbigliò, sistemandolo nel sacco, chiudendo quest’ultimo con il suo laccio prima di issarlo sulle spalle.
    «A parte i tuoi gusti, direi che è tutto a posto; se mi vuoi seguire, farò alzare il cancello.» disse l’uomo, indicandole la fila di gradini bianchi innanzi a loro.
    In cima alla scalinata, i soldati della Guardia Imperiale salutarono il loro superiore poggiando il pugno sul cuore; il Giudice rispose allo stesso modo, dopodiché poggiò la mano guantata sulla spalla di Virginia, le scaglie di metallo che premevano sulla sua pelle come in una morsa di ferro, tanto l’uomo era forte e il suo corpo debole.
    «La ragazza è a posto, aprite!» ordinò, rivolgendosi alle Guardie sul cammino di ronda, con la voce possente nonostante l’elmo gli coprisse totalmente il volto.
    Un paio di minuti e la saracinesca s’alzò, accompagnata dal cigolare delle catene.
    «Ehi, ragazza!» le urlò il Giudice, prima che potesse oltrepassare il cancello appena sollevato.
    Virginia si girò in direzione dell’uomo, ora con l’elmo cornuto stretto in mano che lasciava in mostra il suo volto sulla trentina, leggermente allungato, dai corti capelli di fuoco e gli occhi grigi come la lama della sua arma; una rada barba rossa gli contornava guance e mento.
    «Buona fortuna.» le disse, battendo il pugno sul cuore con la mano libera.
    Virginia accennò un sorriso, sollevò il braccio destro, mimando un saluto che ricordava più un movimento per scacciare le mosche e proseguì per la sua strada.
    “Per essere un Giudice, non è poi così male, è quasi simpatico.” pensò tra sé e sé, ammirando il paesaggio oltre il Muro della Confessione dalla cima di una scalinata: le abitazioni in mattoni proseguivano in quel tratto della capitale, ma spesso erano intervallate da piazze stracolme di bancarelle, le urla di uomini e donne che invitavano i passanti a fermarsi ad acquistare i loro prodotti, i migliori in tutta Archades e dintorni.
    In lontananza riusciva a scorgere il Muro della Salvezza, simile a quello della Confessione, e il susseguirsi di archi e colonne immacolate che conducevano all’Eden, quest'ultimo circondato da giardini verdi smeraldo e migliaia di fiori d’ogni colore.
    “Dai che manca poco.” pensò, gioendo all’idea di trovare una soluzione al mistero del libro.
    Virginia distolse lo sguardo dallo splendido panorama e rivolse le attenzioni ai suoi vestiti; annusando la manica del farsetto di cuoio sentì odore di muffa, alcol e di tabacco di pessima qualità che impregnavano quel locale ed ora, anche i suoi abiti; i pantaloni e gli stivali, invece, erano incrostati di fango.
    “Dannata bettola, puzzo da far schifo!” commentò, stizzita “Se mi presento conciata così, le guardie non mi faranno nemmeno entrare.”
    Scesa dalla lunga gradinata, Virginia si guardò attorno, attentamente.
    “Qui in giro ci sarà di sicuro una bottega o qualcosa di simile, basterà cercare.”
    Proseguendo lungo il viale principale, Virginia giunse infine innanzi a una bancarella, tra le molte che riempivano la piazza, con esposto dei vestiti, ammassati uno sopra l’altro. Seduta dietro al carretto che fungeva da banco, c’era una donna anziana, i capelli biondi, raccolti, e le rughe attorno agli occhi dalle iridi azzurre, impegnata con ago e filo, mentre rattoppava il tessuto rosso cremisi poggiato sulle sue gambe.
    Quando Virginia si schiarì la voce, la donna alzò lo sguardo e nel vederla, mise i suoi strumenti da parte, s’alzò dalla sedia, poggiandovi sopra il tessuto cremisi.
    «Cerchi qualcosa?» le domandò, dolcemente, mostrando un sorriso cui mancano diversi denti.
    «Vorrei comprare un vestito: presto avrò un’udienza con l’Imperatore.» disse, prendendo la sacca di pelle dalla tasca dei pantaloni e mostrandola alla donna.
    «Va bene. Vediamo se trovo qualcosa che ti si addice.» rispose la donna, dopodiché cominciò a spostare un vestito dopo l’altro, tanto da formare una pila più alta della precedente, finché non rimase un abito con il corpetto verde acqua e motivo diamantato, la camicia in batista, bianca, dalle maniche larghe alle estremità, e una gonna in raso, color crema.
    «Potrebbe andare? Ma parliamo di seta, un tessuto pregiato e come tale, il prezzo è alto.»
    Virginia non rispose subito: osservò la camicia, poggiata sul carretto, poi il corpetto, notando l’elegante allacciatura sul davanti, soffermandosi infine sulla gonna, apparentemente di seta.
    «Se ciò che dice fosse vero, sarei disposta a offrirle tutti i dragoni in mio possesso, e non sono pochi; ma poiché mi ha appena mentito, non le darò nemmeno un soldo bucato.» esclamò spavalda, godendo nell’espressione sgomenta della donna, incapace di trattenere le emozioni.
    «Stai scherzando… questa è la miglior seta di tutta Archades.» balbettò lei, le labbra tremanti e le gocce di sudore che le imperlavano la fronte rugosa «Nessuno s’è mai lamentato.»
    «Vogliamo fare una prova?» domandò Virginia schioccando le dita e dando fuoco al tessuto rosso sulla sedia, attirando le attenzioni di chi si trovava nelle strette vicinanze.
    «Sei pazza? Vuoi bruciarmi tutto!» urlò la vecchia, agitando il grembiule che indossava per spegnere le fiamme in lento aumento, il fumo nero che saliva, lambendo la tettoia di legno.
    «Faresti meglio a stare zitta, o preferisci spifferi della tua merce contraffatta? Chissà quanta gente ha acquistato dalla tua bancarella… forse pure lui.» sussurrò Virginia vedendo un uomo in abiti da contadino, avvicinarsi al banco, accorso per aiutare ad estinguere il fuoco.
    «Tutto bene? Che cosa è successo?» domandò l’uomo quando le fiamme erano ormai domate.
    «Oh, nulla, solo un incidente. Purtroppo ad una certa età, diventa difficile padroneggiare le arti arcane.» farfugliò la donna, ringraziandolo subito dopo per il suo intervento.
    L’uomo la fissò dubbiosa, tormentandosi la barba grigiastra, ma tornò comunque sui propri passi senza fare altre domande.
    «Dov’eravamo rimasti... ah, se non le dispiace, vorrei provarlo.» continuò Virginia, sorridendo, comportandosi come se nulla fosse accaduto.
    La donna annuì, troppo spaventata per poter rispondere in altro modo, e Virginia si spogliò, rimanendo completamente nuda innanzi a quei curiosi rimasti a guardare; il suo corpo era pallido, morbido e vellutato, nel culmine di una crescita già vissuta; il seno ancora piccolo, dai capezzoli rosei, e la peluria nera dove qualche settimana fa, non c’era nulla.
    Sulla spalla destra, una cicatrice biancastra, quasi in rilievo, si diramava lungo il braccio, fino a raggiungere le punta delle dita: simile a un fulmine esplodere nel bel mezzo di una tempesta.
    Con il vento a pizzicarle la pelle nuda, da pelle d’oca, Virginia prese la gonna di falsa seta dalla pila di abiti, e la fece passare sotto le gambe, fino a raggiungere la vita; poi indossò la camicia in batista e l’abbottonò; infine, il corpetto, avendo cura di infilare il laccio di cotone in ogni buco e stringere per bene.
    “Uhm… non male, anche se avevo ragione: questa non è seta.” pensò, toccando il tessuto della gonna, lisciandola per togliere tutte le pieghe.
    «Perfetto: le lascio i miei vecchi vestiti. Credo sia uno scambio equo» disse, gettando calzoni e farsetto sulla catasta d’abiti, tenendo gli stivali per sé «Mi spiace, ma non sono la sprovveduta che tanto sperava.»
    Virginia rimise gli stivali ai piedi, sollevò il sacco di iuta e con indosso un abito nuovo, voltò le spalle alla donna, diretta al Muro della Salvezza e all’Eden: l’ultima tappa.
    “Ora, mi serve un cavallo, altrimenti non arriverò mai.”

    Il palazzo Imperiale a un tiro di schioppo eppure, in quel momento, sembrava così lontano. Virginia inveiva contro le guardie da una buona mezz’ora, che solidi nelle loro convinzioni, presidiavano il massiccio cancello di bronzo; il cavallo che aveva noleggiato, invece, riposava beato vicino a una delle statue che accompagnavano il viaggiatore lungo la via per l’Eden.
    «Vi ripeto che desidero incontrare l’imperatore. Perché non volete farmi entrare!»
    «E perché mai vorrebbe incontrarti?» domandò una guardia in armatura nera, mentre la seconda se ne stava silenzio, così come aveva fatto fin dall’inizio.
    «Ve l’ho già detto.» urlò, mostrando il tomo rilegato, nero come il carbone «Sono certa che questo libro nascondi informazioni riguardanti il Culto dell’Occhio Insanguinato e Kynval sarebbe contento di saperlo.»
    «L’Imperatore è molto impegnato e non ha tempo di parlare con una ragazzina.» tagliò corto l’uomo, arrivando quasi a minacciarla con l’alabarda in suo possesso.
    “Dannazione, se avessi quel ciondolo di drago non sarei qui a discutere con questo imbecille” pensò stizzita “E invece doveva tenerselo Astrea che non so nemmeno dove sia.“
    A quel punto, Virginia si giocò l’ultima carta rimastele.
    «Perché non ci pensi su? Manca poco al tramonto e siamo tutti stanchi.» propose Virginia, mostrando la sacca di pelle, con le monete d’oro al suo interno, e offrendola alla guardia.
    «Stai cercando di corromperci?» domandò il soldato in armatura che fino ad ora se n’era stato zitto; fregando la sacca dalle mani del compagno e controllandone il contenuto.
    «Che brutta parola: sto semplicemente ingrassando i cardini, così il cancello s’aprirà.» rispose Virginia, calma come l’acqua di uno stagno.
    «In tal caso.» disse l’uomo, lanciandole contro la sacca «Hai sbagliato persona.»
    «Perché non volete farmi passare?» esclamò delusa, arrivando quasi a piangere.
    «Finora siamo stati fin troppo gentili e se te ne vai subito, saremo costretti ad usare le… »
    L’uomo si fermò di colpo e nello stesso momento, Virginia sentì il peso di una mano guantata sulla sua spalla, così come l’era capitato con il Giudice Bauer; si voltò e vide l’ennesimo gigante in armatura nera, stavolta ornata da ghirigori d’argento, e un mantello cremisi che gli ricadeva dalle spalle.
    «Fatela passare: l’Imperatore Kynval la stava aspettando, vero, Virginia?»
    Una voce femminile, e solo una volta aveva avuto a che fare con un soldato di quel sesso.


    Edited by FGBDU - 14/8/2014, 22:54
     
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    Rosmarino e salvia.
    Se si portava le dita alle bende attorno al naso e alla bocca le avrebbe sentite unte.
    Era olio di rosmarino e salvia per coprire qualsiasi altro profumo.
    La luce che filtrava dalla finestra era rosata, delicata; la stanza non riusciva a illuminarsi perfettamente con quella fonte radente e un fantoccio di paglia, le spade sulla parete in fondo, la frusta, le corde sembravano bassorilievi accorpati al muro stesso. Di contro Yichudim si stagliava sullo scuro tutto attorno con la sua pelle e con i profili della leggera lorica musculata che aveva indossato precipuamente per farla allenare.
    - Ora proverai a togliertele, Bradamante, e dovrai concentrarti subito con respiri profondi per evitare di scappare impazzita tra i viali dell’Eden – comandò Yichudim, in ginocchio come lei, le braccia abbandonate sulle cosce.
    - Ho paura di non farcela. Come posso respirare a fondo, sentire tutto quell’odore, e contemporaneamente concentrarmi? E’ impossibile! – esclamò lei.
    Gli occhi cerulei del Giudice la trafissero e lei capì che zittirsi era una delle prime mosse da fare per concentrarsi.
    Bradamante chiuse le palpebre; indice e pollice pizzicarono l’orlo della benda che le sfiorava il filtro nasale; sollevarono; rosmarino e salvia erano ora un campo un po’ distante da cui promanava una fragranza culinaria memorabile; ma quel campo si distanziava sempre di più man mano che la benda veniva sciolta e a un certo punto lei lo sentì.
    Era inconfondibile.
    Bello, sensuale, aggressivo.
    O R O.
    Se avesse dovuto descriverlo per somiglianza con altri odori, avrebbe detto che agrumi, magnolia, ginestra e limone erano un buon sostituto. Ma probabilmente sarebbe stata comunque una descrizione incompleta; anzi, probabilmente era stata anche fuorviata dal giallo dell’oro, per scegliere aromi sprigionati da fiori e frutti dello stesso colore. A parte la magnolia. La magnolia era bianca. D’altronde esisteva anche l’oro bianco, no? E quello rosso. Ed erano preziosi, magnifici, lucenti.
    - Maledetta Agata… - sibilò a denti stretti, con l’oppressione nel cuore, in preda ai fumi di quel metallo.
    Respirò a fondo e fu come se qualcuno le avesse dato una soluzione energizzante. Cercò di scattare in piedi, ma un braccio poderoso la trascinò di nuovo sul pavimento di pietra.
    - Giù! In ginocchio!
    - Ma non lo senti, questo richiamo? Non senti quanto è potente?
    - No, piccola insignificante Agazi, non lo sento! E dovrai imparare a non percepirlo neanche tu! -
    E certo. Per lui era semplice. Non era un Agazi e non era un armaiolo.
    - Respira, Bradamante. Respira a fondo. Oltrepassa il profumo dell’oro, che è tanto forte. Concentrati sugli altri odori. Che altro percepisci? -
    Ogni fiato che lei prendeva, era un sorso di beatitudine, di oblio e di follia.
    Il mal di testa si sprigionò dalla nuca e le investì tutto il cranio fino alla fronte; il mezzo polpo sul seno pulsava come se dovessero venirle le mestruazioni; lo stomaco, oh, lo stomaco reclamava cibo.
    Con le palpebre serrate, il mondo sembrava un calderone dove l’oro era un elemento dominante.
    O R O.
    Subentrò di nuovo il profumo di salvia e rosmarino e lei spalancò gli occhi: Yichudim le aveva rimesso la benda sotto al naso.
    - Guardami, Bradamante -
    Lo stava già facendo, ma non ebbe il coraggio di dirglielo.
    - All’inizio abbiamo dovuto impregnare le tue bende con essenza di lavanda. E sai meglio di me che la lavanda è molto più odorosa di qualsiasi altra erba. Sai che vuol dire questo? -
    L’oro volteggiava nella sua testa; lingotti alati; anelli che volavano; corone lanciate. No, che voleva dire?
    - Vuol dire, Bradamante… - si rispose da solo con pazienza Yichudim - …che, vuoi l’assuefazione, vuoi la concentrazione, l’influenza di quest’odore si sta facendo meno preponderante su di te.
    - Perderò la facoltà di percepire i metalli?
    - Non penso. Più probabilmente riuscirai a diventare meno incline alla pazzia se ti arriveranno zaffate impreviste.
    - Ma allora perché devo imparare la concentrazione? A questo punto basterebbe aspettare che l’effetto confusione svanisca da solo -
    Il Giudice aggrottò le sopracciglia e storse le labbra in un moto di disgusto:
    - Sei davvero pigra. Non ho parole per descriverti. E’ ovvio che passerebbe da solo, imbecille, ma potrebbero volerci mesi! Oltretutto la concentrazione e la meditazione ti sono utili anche in combattimento e quando avrai uno scontro arma…
    - Aspetta, aspetta, aspetta! Che vuol dire combattimento? Io sono sempre stata brava a correre e basta!
    - Pensavi sul serio che passando sotto il diretto comando dell’imperatore non avresti imparato le basilari regole del combattimento? -
    Era un incubo!
    - E ringrazia la Dea che non devi affrontare l'Imperatore: perché lui prima di imparare ad ammazzare la gente ha imparato ad ammazzare draghi -
    Oltre al danno, la beffa.
    - Ora, per cortesia, concentrati. Toglierò di nuovo la benda. E farai bene a non scattare in piedi, perché per atterrarti non lesinerò sulle maniere forti -
    Bradamante chiuse gli occhi. Respirò per un’ultima volta il campo di salvia e rosmarino.
    Espirò.
    Sentì che la benda le veniva scostata dal filtro nasale.
    O R O.
    No. No. No.
    Oro.
    Cosa c’era oltre all’oro?
    Oro.
    Oro.
    Cuoio. La lorica musculata di Yichudim. Che altro?
    Oro.
    Acciaio. Le armi in fondo alla stanza. Era il mare impetuoso, la salsedine, mischiato al terreno bagnato dalla pioggia. Dolce e salato insieme.
    Sudore. Il suo.
    Polvere da sparo. La pistola di Yichudim. Se l’era portata appresso.
    Ferro. Era vicino. E non era una massa tanto grande. Yichudim aveva un pugnale da qualche parte?
    Bradamante aprì gli occhi. Gocce di sudore le corsero lungo le guance e si dovette scavare il palato a morsi per non rispondere all’impulso di andare a cercare di corsa i giacimenti d’oro.
    Assentì con la testa verso Yichudim.
    Il Giudice fece un cenno di approvazione:
    - Bene. Rimani così per cinque minuti. Io mi alzo -
    Furono i cinque minuti più lunghi della vita di Bradamante, i più sudati, i più profumati.
    Pensò ad Angelica, che l’aveva abbracciata strettissima nonostante l’ultima volta che si erano viste lei fosse stata gelida. Angelica che era d’accordo con l’imperatore e che aveva lanciato una scalata sociale non indifferente e probabilmente a breve si sarebbe comprata la nobiltà come facevano molti mercanti arricchitisi a dismisura. Poteva dirsi una Agazi? Professava ancora il culto? Kynval glielo permetteva? E quell’Yichudim? Qual era il suo problema con l’umanità? Aveva battuto la testa da piccolo? Quell’elmo magico gli risucchiava la capacità di avere qualsiasi relazione? In effetti per tutto il viaggio non l’aveva mai visto in compagnia di una donna.
    Lei passò tutti i minuti della prova tenendo lo sguardo fisso sulle armi in fondo, mentre l’oro si faceva una presenza costante ma mai minacciosa nell’arco dei suoi pensieri.
    - Ottimo – disse infine Yichudim – Non puoi ancora compiere grandi azioni, per cui ti ci vorrà una concentrazione di gran lunga maggiore, ma sai contenerti anche senza le bende. Ora, per favore, riallacciale -
    Prova finita. Perfetto. E poi?
    Ci fu il suono tintinnante di un chiavistello, mentre Bradamante si riallacciava le fragranze al naso. Si voltò di scatto verso il fondo della sala mentre una figura umana si avvicinava a loro.
    Umana. Non del tutto.
    Era una femmina alta poco più di cinque piedi e quando si accostò a Yichudim gli sfiorò con la sommità della testa il petto. E dire che sulla testa aveva raccolto i capelli neri in una coda alta.
    Il sole si era alzato, nel cielo, e la luce erompeva più forte dalla finestra; quando ci passò davanti per avvicinarsi a lei, Bradamante vide che i lineamenti della donna erano fini, delicati, ma quelle labbra nere, le rade squame sugli zigomi che si infittivano sugli occhi cerchiati di carboncino e le sopracciglia arcuatissime la rendevano inquietante.
    Bradamante rimase a fissarle il viso per un bel po’. Ci furono tante cose che la colpirono, in rapida sequenza: l’arco di cupido di quelle labbra scure, così appuntito; le strane concrezioni trasparenti tra una squama e l’altra che facevano sembrare i suoi zigomi squamati ricoperti di brina ghiacciata; le perle ornamentali che si era appuntata sulle sopracciglia. Quando quella si portò, imbarazzata dal suo sguardo, una mano a grattarsi la nuca sotto i folti capelli neri, Bradamante vide che le dita erano ciò che di meno umano era rimasto in quella donna: sembravano le zampette di una lucertola grigio antracite, le unghie arcuate, scure, affilate, artigli pronti a squartare. Sulle squame del dorso della mano, altre gocce trasparenti parevano brina di un pallido mattino d’inverno.
    Quanto sangue lusertiano scorreva in lei? Metà? Un quarto?
    Il corpo era quello di una donna minuta, con la vita stretta e i fianchi ossuti; il busto era coperto da una lorica squamata, manco a dirlo, ma non portava gonnellino; portava, invece, pantaloni in tinta con i capelli e stivali corti dello stesso colore.
    - Ti presento Grazyn Nowak. Sarà la tua insegnante di combattimento corpo a corpo -
    Grazyn fece un breve inchino piegando il busto in avanti. Era un inchino da uomo. O da militare. Le donne, la riverenza, la facevano con la schiena dritta e le gonne in mano. Ma cosa poteva aspettarsi da una donna in calzoni?
    Sì. Grazyn le piaceva. Non necessariamente in senso sessuale.
    - Spero che il nostro rapporto esuli dall’allenamento e basta. Mi piace stabilire una grande confidenza coi miei allievi -
    Non aveva la lingua biforcuta, il che faceva in modo che non avesse problemi di dizione.
    Bradamante cercò di sorridere nella maniera più affabile possibile, ma con la benda sul filtro nasale probabilmente sembrava una mummia damascana:
    - Lo spero anche io. Sai, Yichudim, per un attimo ho temuto che fossi tu ad allenarmi…
    - Oh, sarebbe stata una lotta impari, Bradamante. Grazyn è l’insegnante di tutti i giovanissimi rampolli troppo viziati per essere buttati direttamente nell’esercito. Li forgia e li rende dei buoni combattenti. Poi, superato un certo livello, vengono dati in pasto ai grandi ufficiali -
    Bradamante aveva un brutto presentimento.
    - Il che significa che prima o poi dovrai combattere contro di me -
    Ah, ecco.
    - Ma per iniziare devi prima di tutto acquisire le regole basilari che Grazyn ti insegnerà: è agile, minuta, non troppo forzuta. Il suo stile di combattimento si basa soprattutto sulla velocità e sull’uso di armi da lancio e leggere. Dovrai diventare uguale a lei se vuoi sperare di competere con uomini massicci come me -
    Meraviglioso. Poteva andare peggio?
    Grazyn andò in fondo alla stanza. Prese due bastoni di legno.
    Ne lanciò uno a Bradamante, che lo intercettò al volo più per fortuna che per prontezza di riflessi.
    Yichudim si mise di lato.
    Grazyn ancheggiò fino a lei e piegò le gambe, il busto in avanti. Era già in guardia?
    - Cominciate! – urlò Yichudim senza preavviso.
    La mezza lusertiana si lanciò verso di lei, fulminea come un cobra; Bradamante si ritrovò stesa a terra con la testa dolorante e Grazyn a cavalcioni su di lei che le puntava il bastone alla gola.
    - Male… - commentò l’allenatrice – Devi essere sempre all’erta -
    Smontò e si mise in piedi:
    - Ricominciamo! -
    Bradamante non si era ancora rialzata, che il bastone della lusertiana la colpì allo stomaco e lei rotolò dal dolore.
    Mentre si contorceva, i colpi arrivarono ancora e ad ognuno di essi lei implodeva in una bestemmia colossale contro Sant’Agata.
    Afferrò l’arma di Grazyn e la scagliò via; rotolò su un fianco, gemendo per le botte, e si mise nella posizione di guardia che le aveva visto fare. La lusertiana aveva già recuperato il bastone e dondolava nella stessa posa.
    - Forza! – comandò il Giudice fuori dal campo visivo di Bradamante.
    Caricò Grazyn con uno strillo e calò il bastone dall’alto, ma l’altra lo intercettò col proprio. Sorrideva.
    Bradamante si sganciò dallo stallo e provò un colpo laterale; intercettato; saltò indietro, provò un affondo; scansato. Grazyn saltò in aria e piroettando sfiorò coi piedi il suo bastone e la superò.
    Bradamante si sentì colpire alla schiena e si girò con ira verso la lusertiana.
    E non la vide più.
    Percorse con lo sguardo tutta la stanza, mentre il fiatone le riempiva i polmoni di salvia e rosmarino e il sudore le scivolava lungo le anse del corpo.
    Poi guardò in su. Grazyn era appesa al soffitto, a quattro zampe.
    Lusertiana.
    - Ed ora un po’ di alchimia! – esclamò tutto allegro Yichudim.
    Stiamo scherzando!pensò Bradamante.
    - Prima legge dell’alchimia, ovvero dello Scambio Equivalente: per ottenere una sostanza di un tot valore, bisogna sacrificarne un’altra del medesimo valore -
    NON stava scherzando.
    - Ripeti, Bradamante! – comandò il Giudice.
    Grazyn caricò senza staccarsi dal soffitto e lei le corse incontro col bastone tenuto alto. La lusertiana le saltò sopra e lei se la scrollò di dosso.
    - Per ottenere una sostanza di un determinato valore, bisogna sacrificarne un’al… -
    Grazyn la colpì fortissimo con un affondo. Non contenta, rigirò la stecca nel costato come se dovesse farle un buco.
    - Agata bastarda! – strillò Bradamante; afferrò il bastone e lo strattonò, ma Grazyn non mollò la presa.
    E così passò un’ora.
    Alla fine aveva la stoffa incollata al busto, i calzoni che penzolavano umidi all’altezza delle cosce e le ascelle che avrebbero potuto fare una strage.
    E con l’ultimo, disarmante commento di Yichudim (“E’ andata uno schifo, ma la cosa buona è che non ti sei colpita da sola”), Bradamante era corsa a cercare le terme.
    In testa la ronzava ancora quella primissima lezione di alchimia che aveva carpito a suon di bastonate.
    Lo Scambio Equivalente.
    Quel seno che si era mozzato poteva dirsi uno scambio equivalente per produrre in eterno polvere di salnitro? Non doveva avere pari valore, la materia, per poterne avere altra? La carne, il sangue, la pelle erano forse validi sostituti del candido sposo di carbone e zolfo? Potevi forse incendiare un seno e produrre uno scoppio che avrebbe fatto partire un proiettile in avanti su una traiettoria più o meno rettilinea? Era alchimia? Era magia? Era demonologia?
    Bradamante ebbe paura che quel che aveva fatto, lei come qualsiasi altro Armaiolo nel mondo, era all’incrocio delle tre cose e che per questo si collocava all’infuori delle leggi che regolavano quei tre campi con regole proprie, dettate dalla commistione.
    Ai lati, cipressi grandiosi svettavano verso il cielo azzurro. Una meridiana recava un’iscrizione che Bradamante rimpianse di non sapere leggere. Davanti a lei il giardino si interrompeva su una balaustra marmorea da cui la piana si mostrava in tutta la sua floridezza. In lontananza, Bradamante poteva vedere delle linee bianche, anelli sottili che circondavano tutto: i valli.
    Si voltò di nuovo sul viale e intercettò ciuffi biondo dorato e guance paffute:
    - Dove andiamo, così di corsa?
    - A lavarmi, Ange. Non senti come puzzo?
    - Quello era sottinteso, ma dove stai andando a lavarti?
    - Alle terme! Dove, se no?
    - Non sono di qua! Il tuo senso dell’orientamento è peggiorato! Oppure è ora di imparare a leggere!
    - Allora indicamele tu, di grazia…
    E continuarono così, come ai vecchi tempi. E una stilla della Agazi che era stata giubilò al vedere che non rifiutava la compagnia di Angelica e che le sue mani delicate non le davano fastidio quando le tolse le bende, né quando si offrì di massaggiarle la schiena.
    Bradamante fissò il soffitto della Sala degli Aromi delle terme, l’odore della lavanda in grani che avevano gettato nell’acqua calda che le avvolgeva in un morbido tepore. Era il solo modo che aveva, per il momento, di lavarsi: se si fosse tolta le bende e fosse entrata nel calidarium o nel frigidarium adiacenti, l’odore dell’oro sarebbe stato ancora troppo forte.
    - Poi mi ha quasi fatto un buco nelle costole! – esclamò sdegnata Bradamante.
    Angelica le passò un dito su un livido sotto al petto e lei sussultò.
    - Sì, proprio là -
    Angelica le girò attorno e Bradamante vide che nello sguardo dell’amica, man mano che le scrutava il petto, passò prima un’ombra di disgusto, poi di tristezza. Capì che il tentacolo avviluppato stava dando di che pensare alla formosa bionda. Angelica cominciò a respirare a fondo, il tatuaggio di due ali di colomba che si abbassava e rialzava a ritmo con l’inspirazione e l’espirazione; una vena sul collo, dove una chiave era incrociata con un pugnale, pulsava debolmente.
    Bradamante schioccò le dita a una spanna dagli occhi di Angelica e quella rise.
    Si dimenticarono del patto demoniaco.
    Lei tornò a fissare il soffitto: il mosaico monocromo ritraeva una pesca molto movimentata; a destra in basso c’era un tritone che puntava l’arpione contro due delfini a sinistra; al centro c’era un’imbarcazione con due pescatori armati di fiocina che se la stavano vedendo con un polpo gigante.
    Forse non era esattamente la scena più indicata da mettere in un posto dove la gente andava per rilassarsi, ma con ogni probabilità era Kynval ad aver progettato tutto. O, se non Kynval, qualcuno molto vicino alle alte gerarchie: raramente l’idillio sarebbe stato l’obiettivo di qualsiasi decoratore, con una committenza del genere.
    - Ange, hai mai pensato al perché un oggetto, specie se appuntito, fatto girare su una superficie ha più probabilità di bucarla rispetto a un oggetto che invece non gira?
    - Non ho capito -
    Bradamante sospirò e si voltò verso Angelica:
    - Quando devi fare un buco su una superficie resistente, no?
    - Hm.
    - Ruoti un po’ l’oggetto che stai impugnando, per bucare la superficie più velocemente, no?
    - Hmhm.
    - Ti sei mai chiesta perché?
    - No – rispose con semplicità Angelica, mentre si passava cenere sul viso e sulle spalle.
    - Se uno fa pressione su un unico punto, invece che su una superficie larga, e applica una torsione sull’oggetto con cui lo fa, ha più probabilità di penetrare…
    - Bradamante, stai iniziando a parlare archadiano antico – Angelica aveva gli occhi spenti e la bocca aperta, le palpebre pesanti, sotto la maschera di cenere che aveva smesso di strofinare.
    - Perché non applicare in guerra, alle armi da fuoco, questo principio?
    - Cioè?
    - Far girare i proiettili con una forma più allungata per evitare che girino su se stessi e perdano efficacia.
    - E come pensi di farli girare? Con una zangola da burro a manovella? – commentò l’altra, per poi tuffarsi con la testa sottacqua.
    - Spiritosa… - ribatté Bradamante prima che lei riemergesse e la fissasse corrucciata:
    - Come ti è venuta quest’idea?
    - Beh, ho notato che quando la lucertolaccia mi ha piantato il bastone nel costato e ha ruotato, mi ha fatto molto più male.
    - Inizio a pensare che tu abbia seriamente qualcosa che non va.
    - Antipatica. Aiutami a rimettere le bende e andiamo a pranzo.
    - Sono così sontuosi e noiosi i pranzi di palazzo…
    - Volendo potremmo andare in cucina e dire ai servi che ci facciamo il pranzo da sole.
    - Io non so cucinare, Bradamante -
    Le si illuminarono gli occhi e il cuore fece un sobbalzo:
    - Io sì – sussurrò, appassionata.
    Subito mille e una spezie e le loro combinazioni fioccarono nella mente. Prezzemolo, basilico, cardamomo, cumino, peperoncino, pepe…
    - Dici che Kynval si arrabbierà se andiamo in cucina? – chiese, d’un tratto spaventata, l’amica.
    - Perché abbiamo deciso di cucinarci da sole? Al massimo ammirerà l’indipendenza. Conoscendolo, potrebbe anche indire una nuova moda, a corte -
    Angelica ridacchiò:
    - Sta iniziando a piacerti, vero? -
    Bradamante fu colpita da quell’osservazione. Non ci aveva pensato, ma in effetti per la cortesia che le aveva dimostrato, la capacità strategica e la sua praticità non convenzionale per un sovrano, Kynval stava guadagnando molto in stima.
    Alla faccia del credo Agazi.
    Bradamante le diede un buffetto sulla guancia mentre Angelica, ancora nuda, le assicurava la benda dietro la testa:
    - Non esageriamo. Diciamo che mi fido di più. Tutto qui.
    - Sì. Certo -
    Bradamante le diede uno spintone e la rispedì nella vasca, gli occhi increduli dell’amica mentre cadeva in acqua con un tonfo.
    Quando riemerse, coi capelli incollati alla faccia e lo sguardo assassino, non poté fare a meno di scoppiare a ridere in maniera genuina.
    Scostandosi le ciocche dorate, Angelica si accodò.
    Famiglia. Amici. Il demone non può togliermi tutto questo.
    Dal fondo della sua anima contesa, Agata guardò con sufficienza il Demone della Polvere. Una piccola vittoria sulla sua influenza.
    Un briciolo di umanità ritrovata.
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    Una leggera folata di vento fece ondeggiare il mantello di lucente seta cremisi che pendeva dalla gorgiera dell'armatura bruna.
    Guardò dritto in fronte a sé.
    La lama ondulata di una flamberga puntava dritta verso di lui, riflettendo i timidi raggi di luce che penetravano dalle chiome degli alberi.
    Un cascata di capelli biondi ondeggiava nella corsa insieme al pennacchio scarlatto del morione d'acciaio lucente. Il pettorale argentato, coperto d'intarsi floreali, contrastava con lo sfondo di cespugli verdi e cipressi del giardino dietro alla donna in carica.
    Kynval spostò il piede destro indietro, in un tintinnio di anelli e piastre metalliche che sbatacchiavano tra di loro.
    Distese il braccio armato verso il basso e piegò il mancino frapponendo lo scudo oblungo ed appuntito che era fissato all'avambraccio tra sé e l'avversaria.
    Piegò le gambe.
    Attese.
    In un colpo di reni la donna saltò sollevando l'enorme spada verso il cielo.
    L'Imperatore sollevò lo scudo sopra la testa e intercettò il tagliente della flamberga dandole un colpo secco.
    Un tintinnio cristallino si diffuse per tutto il giardino mentre l'ondulata lama volava a pochi centimetri dal corno sinistro del suo elmo passando oltre senza colpo ferire.
    Spostò il piede destro avanti di scatto e la sottile lama a doppio taglio della spada da lato saettò verso il punto scoperto tra la corazza e il rebrace della moglie.
    Helena sollevò il braccio sinistro e intercettò l'attacco usando il vambrace del guanto d'arme.
    Scattò indietro impugnando la flamberga a mezza spada e affondò.
    Kynval scartò di lato e sollevò lo scudo parando un secondo colpo di punta, che superò il sottile strato d'acciaio e affondò nel legno di un pollice almeno.
    Diede uno strattone allo scudo strappandolo via dalla morsa della flamberga e sbilanciando la schermitrice. Piroettò, menando un tondo dritto verso il fianco disarmato della moglie.
    Helena frappose lo spadone sulla linea d'attacco e le due lame impattarono con violenza.
    Fendente alto, tondo a destra e a sinistra.
    Le lame vibravano emettendo una nota soave ad ogni botta.
    Helena saltò indietro e lasciò andare il forte della lama abbassando la mano mancina verso il cinturone in vita.
    Kynval fece appena in tempo a sollevare lo scudo che la larga lama seghettata di un'ascia da lancio sfaldò l'acciaio e si conficcò saldamente nel legno.
    Sentì tirare.
    Guardò verso la moglie
    Helena stringeva tra le mani una sottile catena in metallo scuro il cui capo era agganciato ad un anello sul fondo del manico dell'ascia.
    Sorrideva.
    « Cazzo » commentò l'Imperatore.
    Helena diede un secco strattone alla catena.
    Le fasce di cuoio cedettero e lo scudo volò via con ancora l'arma incastrata al centro.
    L'affondo di flamberga giunse una frazione di secondo dopo.
    Kynval fece uno sforzo immane per saltare indietro con addosso tutto il peso dell'armatura completa.
    Un scroscio di tintinnii e suoni metallici accompagnò l'atterraggio nell'erba morbida.
    Zolle di terra volarono via per la violenza dell'impatto mentre le agili gambe di Helena, coperte da un paio di aderenti stivaloni in cuoio che arrivavano fino a mezza coscia, scattarono verso il sovrano.
    Kynval allungò la mano sinistra indietro, afferrò il mantello e con un movimento circolare se lo avvolse attorno al braccio.
    Helena sollevò la flamberga verso il cielo.
    Un colpo secco e la donna si prese in faccia la seta cremisi del tabarro di Kynval.
    L'Imperatore scansò il cieco fendente facendo un passo verso destra e rispondendo con un elegante sgualembro dritto alla spalla della guerriera.
    Helena sfruttò l'inerzia del suo attacco a vuoto e si gettò in avanti.
    Rotolò sotto la spada da lato e scattò in piedi, perdendo il morione che volò via nella foga del movimento.
    Kynval ruotò su se stesso e fece un passo indietro, sollevando la lama della spada frapponendola tra il suo volto e la moglie. Helena si voltò verso il marito, impugnando la flamberga a mezza spada e mettendosi in guardia.
    Kynval piantò le sue iridi scure in quelle castane della moglie e fece tre passi a destra, in tondo, imitato dall'avversaria.
    Scattarono in avanti all'unisono.
    Helena sollevò la flamberga in aria e calò l'ennesimo fendente.
    Kynval sollevò la sottile spada da lato e intercettò il colpo.
    Si spostò lievemente di lato e inclinò la lama verso il basso.
    Lo spadone della moglie scivolò via lungo il taglio emettendo una cascata di scintille e Kynval diede un colpo con il pomo dritto sulle mani della moglie.
    Helena perse la presa e la flamberga cadde a terra.
    Kynval lasciò andare il mantello e afferrò la moglie per il collo, sbattendola contro il tronco di un cipresso e puntandole la spada al petto.
    I loro volti erano talmente vicini che poteva sentire il fiato della bionda penetrare attraverso le feritoie dell'elmo.
    « Morta » disse infine il sovrano, ansimando per la fatica.
    Helena sbuffò, sollevando con la mano destra la maschera dell'elmo che celava il volto del marito.
    « No! » esclamò lei, indicando con l'indice verso il basso. « Morti entrambi. »
    Kynval guardò giù.
    Con la mano mancina Helena puntava il pesante coltello da caccia all'altezza del ventre di Kynval.
    « Ho l'armatura lì » disse l'Imperatore, sollevando lo sguardo.
    « Anche io, dove stai puntando la spada » replicò lei, con voce roca. « Ora mi potresti lasciare andare? »
    Kynval sorrise e la baciò, poi mollò la presa.
    Helena si massaggiò il collo e andò a recuperare la propria arma e l'elmo che giacevano nell'erba in mezzo alla piccola radura del giardino.
    « Lo scudo e l'ascia dove sono finiti? » domandò Kynval, riponendo la spada nel fodero e guardandosi intorno.
    Helena si voltò verso di lui.
    « Li ho scagliati in quella direzione, se non ricordo male » disse, puntando l'indice verso ovest.
    Kynval lanciò uno sguardo verso il punto indicato dalla moglie.
    « Ti prego: dimmi che non li hai tirati sul serio di lì. » disse, incamminandosi sconsolato verso il sole calante.
    « Sì, sono sicura di averli visti volare di lì » replicò lei, agganciandosi il morione alla cintura e riponendo la flamberga nel fodero che aveva sulla schiena.
    Kynval si coprì la faccia con la mano destra e si appoggiò alla balaustra con l'altra.
    La moglie lo raggiunse.
    « Oh...! » esclamò, portandosi la mano alla bocca e lanciando uno sguardo verso il vuoto che dava sul piano inferiore della città.
    « Già... » commentò Kynval, sospirando. « Speriamo siano finite su un tetto, e non in testa a qualche d'uno... »
    Helena emise uno sbuffo, e scoppiò a ridere.
    Kynval si voltò verso la radura, trattenendo una risata sguaiata.
    « Andiamo a spulciarci » disse la donna, staccandosi dal parapetto e incamminandosi lungo il vialetto che correva attorno al bordo del terrazzo alberato.
    Kynval si tolse l'elmo cornuto, mettendolo sottobraccio, e le tenne dietro.
    Sbucarono in un piccolo cortiletto pavimentato e circondato da vasi colmi di violette e rose.
    Al centro era posta una fontana marmorea decorata con statue di sirene e tritoni, zampillante d'acqua fresca e pulita.
    Si fermarono sul bordo e si abbeverarono entrambi direttamente dai getti laterali.
    Dal cortile partivano tre viali: uno era quello da dove erano arrivati mentre quello opposto continuava a seguire la balaustra e conduceva al palazzo che, con i suoi tetti e le guglie, superava le chiome degli alberi.
    L'ultimo, perpendicolare al bordo del terrazzo, si inoltrava nei giardini, verso il centro della montagna. La torre circondata di portici del Magisterium svettava in quella direzione e più in basso, in mezzo agli alberi a livello del terreno, si vedeva la porta d'accesso ad un edificio rettangolare dal tetto spiovente che era stato costruito a ridosso della parete rocciosa.
    La Sala d'Armi.
    « Come pensi se la stia cavando Bradamante? » domandò Helena, lanciando uno sguardo verso l'edificio sul fondo del viale.
    « Ritengo bene » rispose l'Imperatore. « Grazyn ha passato anni con le reclute dell'Esercito, ed è una brava maestra. La Agazi non potrebbe essere in mani migliori. »
    « Immagino vuoi lasciare che qualcuno svezzi un poco la fanciulla, prima di organizzare un duello con lei, dico bene? » domando l'imperatrice, incamminandosi lungo il vialetto che portava al palazzo.
    « Più che altro vorrei che impari a difendersi con un insegnante più bravo di me o te » rispose lui, affiancando la bionda. « E vorrei che uscisse dalla Sala d'Armi con ancora tutti gli arti attaccati al corpo. »
    Helena ridacchio.
    « E con Yichudim invece come credi se la caverà? » chiese la donna, puntando verso il padiglione delle terme.
    « Magnificamente » rispose l'Imperatore. « Il nostro nuovo Giudice Magister e la Agazi si amano già alla follia. »
    « Mannaggia a quella cagna di Agata impestata, tu e la tua fottuta... Ahia! » gridò qualcuno in lontananza che Kynval riconobbe esser proprio Bradamante.
    « Oh, ne sono certa » replicò Helena, ridendo nell'udire le imprecazioni che provenivano dalla Sala d'Armi.
    Posarono armi ed elmi su un tavolino asciutto, che occupava l'angolo della sala, e gettarono manciate di grani di lavanda nel vaporoso calidarium delle terme.
    Helena si tolse i guanti d'arme, le cubitiere, i rebrace d'acciaio e il cinturone, posandoli accanto alla flamberga, poi sganciò le fibbie sul fianco del pettorale corazzato e si liberò dell'armatura.
    Sfilati gli stivaloni, le brache a buffo, il gambeson e la camicia si gettò in acqua schizzando getti caldi ovunque.
    Kynval si slacciò la cintura e sganciò le fibbie che tenevano serrati i guanti d'arme, le cubitiere e gli spallacci. Si liberò della corazza, della cotta di maglia e della sua giubba di lana rossa.
    Tolse gli schinieri, gli stivali e rimase in brache e camicia.
    Si diede una rapida annusata sotto le ascelle.
    Per poco non ci rimase secco.
    « UUUUUUUH! » urlò Helena, sollevandosi in piedi dalla vasca termale agitando le braccia. « Sono il temibile Idra del Khalak! »
    Kynval la guardò.
    Si morse il labbro inferiore.
    Poi scoppiò a ridere.
    « Ti sconfiggerò, orribile creatura! » disse con tono melodrammatico, mimando l'estrazione della spada dal fodero e puntando il dito della mano mancina verso la moglie.
    E si gettò in acqua ancora vestito.
    Si avvinghiarono facendo finta di lottare e si baciarono sott'acqua.
    Riemersero vicino alla sponda e si sederono sul gradino sommerso.
    Kynval distese il braccio destro lungo il bordo, cinse il fianco di Helena con l'altro e si rilassò.
    « Un po' la Gilda mi manca, sai? » disse. « Almeno, mi mancano le cacce con i vecchi compagni. Severus, Vesta... E tutti gli altri. »
    « Anche a me mancano... » replicò lei, sospirando. « Fare il Cacciatore di Mostri è un mestiere rischioso di per sé, e l'Invasione dei Draghi ci ha praticamente decimato. Del nostro Clan siamo rimasti solo tu, io e Severus. »
    « Già » concordò lui, voltandosi e dandole un bacio. « Ora l'Occhio Insanguinato è tornato a rapire e sacrificare neonati, e con lui anche De Verdun ha fatto la sua ricomparsa. Alcuni dicono di averlo visto a Cleycourt, e... credo abbia ancora la Crisalide con sé. Inoltre gli Armaioli si stanno facendo più riservati, più sospettosi e più esigenti. Ci sono troppe coincidenze che mi puzzano. »
    « Ancora mi chiedo come abbia fatto De Verdun » disse la donna. « Insomma: a penetrare nel Magisterium, e portare fuori quella... quella cosa. »
    « Tra l'altro nemmeno sappiamo esattamente cosa ci sia dentro quel contenitore » aggiunse lui. « So che sprigionava una grande potenza magica, ed io facevo fatica anche solo a stargli vicino. Probabilmente Gwendolyn sa cosa c'è dentro, e se l'ha rubato allora significa che sa anche come usarlo. E se sa come usarlo allora potrebbe essere pericoloso. »
    « Un ragionamento che fila » concordò Helena. « Mi domando come mai ancora non abbia usato quello che c'è la dentro, allora. »
    « Forse sa cosa fare, ma non ne è in grado » azzardò lui. « Virginia è ad Archades, in ogni caso, e sta venendo qui. Magari riesco a cavargli fuori qualche informazione in più. Lei sa sicuramente qualcosa. »
    « Virginia? » domandò Helena, voltando la testa con aria stupita. « Ma non era a Cleycourt? »
    « Il Magisterium ha perso le sue tracce a Cleycourt. Colpa di un Cavallo Volante, dicono... » rise lui. « L'hanno rintracciata vicino a Pindemonte, insieme alla cara principessa Astrea. Stanno venendo tutte e due a farci visita. »
    « Immagino lo avessi previsto » disse lei, pungolandolo con un dito.
    « In realtà no » rispose lui, schiacciandole il naso con l'indice della mano. « Tutto avevo calcolato tranne che venissero a cercarmi di loro iniziativa. Ma meglio così... »
    Udirono la porta del calidarium aprirsi alle loro spalle e si voltarono.
    Una faccia ferina coperta di pelliccia a strisce arancioni e nere entrò nelle terme. Una camicia di cotone bianco, lunga fino al ginocchio, copriva il fisico atletico di Shallaqi, e la lunga coda del damascano spuntava da sotto di essa.
    Teneva in mano il fodero della scimitarra, sempre pronto ad usarla.
    « Eminenze! » esclamò il generale, vedendo l'Imperatore e la moglie immersi nel calidarium.
    « Torno più tardi, scusate il disturbo » disse poi, facendo per andarsene.
    « Entra pure, Generale! » disse Helena, con tono allegro. « Non disturbi affatto. »
    Shallaqi guardò fuori dalla porta, interdetto, poi si avviò verso il tavolino e posò la sua arma accanto a quelle dei sovrani. Si tolse la camicia ed entrò in acqua dal lato opposto del calidarium.
    « Credevo che voi damascani odiaste bagnarvi il pelo » lo canzonò l'Imperatore, ridacchiando.
    « Solo un luogo comune, Eminenza » replicò lui, facendo ondeggiare la coda avanti e indietro. « Odiamo aspettare che si asciughi. »
    Risero.
    « Come stanno i tuoi uomini? » domandò l'Imperatore. « L'aria della capitale gli sta ossigenando il cervello, o hanno ancora problemi di memoria? »
    « Temo che quelli li avranno sempre » rispose il generale, ridacchiando. « In ogni caso non credo siano mai stati meglio: dopo Cleycourt i miei domabestie avevano bisogno di tirare il fiato. Fino al Conclave null'altro che esercitazioni e licenze premio, come mi avevate detto. »
    « Lasciamoli riposare » replicò l'Imperatore, sorridendo.
    « Ho saputo che avete una nuova ospite a corte, Eminenza » disse il damascano, facendo ondeggiare la punta della coda avanti e indietro fuori dall'acqua.
    « Hai saputo bene » annuì lui. « Ultimamente l'Eden è molto affollato. Non che la cosa mi dispiaccia, anzi, sono solo preoccupato per il povero Elia: starà impazzendo per gestire tutto quanto. »
    « Elia ha un esercito di camerieri al suo comando » rise Shallaqi. « I domabestie che hanno scortato qui questa armaiola, in ogni caso, mi hanno fatto sapere di un suo problema con l'odore del metallo. Se ha dato di matto anche solo avvicinandosi al Vallo non oso immaginare come deve sentirsi qui, vicino alle Forge e alla Tesoreria Imperiale. »
    « Abbiamo escogitato un sistema per tenerla buona fino a che non abitua il suo fiuto canino, che comprende uno straccio e parecchio profumo » spiegò Helena. « A proposito: la sessualità di quella donna mi spaventa. Faccia attenzione mentre si trova nei paraggi. »
    Il damascano fece una smorfia perplessa.
    « Che intendete dire? » domandò, curioso.
    Kynval rise.
    « Yichudim si è prodigato di farmi sapere che, a quanto pare, ha una predilezione per i damascani e che i damascani ce l'hanno per lei » disse l'Imperatore ridacchiando.
    Le vibrisse di Shallaqi iniziarono a tremare.
    « Questo non l'aveva scritto nessuno nel suo rapporto » bofonchiò.
    « Dubito che i soldati descrivano anche le scappatelle notturne nei loro rapporti » replicò il sovrano.
    Shallaqi sospirò.
    « Avete già preparato i piani per il rastrellamento? » chiese Helena, cambiando discorso.
    « Sì, Eminenza » rispose il generale. « Ho già individuato con precisione i luoghi dove gli Armaioli sono soliti riunirsi e le loro tenute sia dentro che fuori le mura di Archades. Ho disposto i miei uomini strategicamente nelle caserme della città e tutto appare come una normale esercitazione militare: nessuno sospetta nulla. Appena darete l'ordine piomberemo nelle loro case prima ancora che possano anche solo pensare di fuggire e sparire oltre il confine volturiano. »
    Kynval sorrise.
    « Eccellente » disse tirandosi in piedi e uscendo dalla vasca con gli abiti gocciolanti. « Di quelli che vivono fuori dalla capitale se ne occuperà la Gendarmeria sotto la guida del Magisterium. Tutto l'Impero sarà rivoltato come un calzino nel giro di mezz'ora: sarà la più grande operazione militare nella storia del continente. »
    Helena raggiunse il marito, coprendosi le grazie con un accappatoio azzurro recuperato da un ripiano.
    Iniziarono a radunare le armi e i pezzi delle armature, avvolgendo tutto dentro un asciugamano asciutto, e lasciando i vestiti sporchi in una tinozza lì accanto.
    Elia sarebbe passato a prenderli per farli lavare.
    Raggiunsero una stanzetta adiacente al calidarium, con le pareti occupate da diversi armadi in mogano.
    Kynval aprì le ante del più vicino e recuperò un paio di pantaloni asciutti, stivali di pelle marrone, una camicia e un'altra giubba rossa.
    Si tolse gli abiti bagnati, lanciandoli nella tinozza del bucato, e si vestì in fretta, imitato dalla moglie che aveva optato per un leggero abito di cotone verde e un paio di morbide scarpe in camoscio.
    « Ti sta d'incanto » commentò l'Imperatore, mentre allacciava l'abbottonatura in doppiopetto.
    Lei lo ringraziò con un bacio.
    « Ti lasciamo al tuo bagno, Shallaqi » disse l'Imperatore uscendo dal guardaroba, afferrando l'involto con le armi e infilando la porta seguito dalla moglie.
    « Buona serata, Eminenze » replicò il generale, portando il pugno al cuore e riprendendo il suo bagno rilassante.
    Attraversarono il corridoio nord e si inoltrarono nell'Ala privata del Palazzo, raggiungendo la camera da letto nel giro di pochi minuti.
    Riposero accuratamente le armi nella rastrelliera alla parete e le armature sui manichini.
    Gettarono l'asciugamano e la vestaglia bagnata nell'adiacente stanzetta da bagno e poi tirarono un sospiro di sollievo abbandonandosi alla comodità di un divanetto in velluto.
    Qualcuno bussò alla porta.
    « Eminenza » disse la voce di Tosca Volterra da oltre l'uscio. « Virginia è arrivata a palazzo. L'ho condotta nella Sala delle Ore, come mi avevate chiesto. »
    Kynval sospirò.
    « Voglio andare a cena » si lamentò, sconsolato.
    « Suvvia » gli disse Helena, abbracciandolo. « Mangerò qualcosa anche per te. »
    « Tu sai sempre come consolarmi » ridacchiò lui con tono ironico, baciandola.
    Si alzarono dal divanetto. Kynval afferrò il cinturone, se lo strinse in vita e recuperò la spada da lato dalla rastrelliera riponendola nel fodero. Uscirono dalla stanza e si incamminarono lungo il salone dell'Ala Privata, lei procedendo dritta verso sud, verso la Sala da Pranzo, e lui costeggiando la parete alla sua destra.
    « Ma non poteva aspettare domani mattina? » domandò alla magister, che nel frattempo aveva messo l'elmo sottobraccio e gli si era affiancata.
    Coperta dall'armatura d'acciaio smaltato di nero, lucidata a specchio, la donna aprì la bocca per dire qualcosa ma ne uscì solo un verso perplesso.
    « Suppongo sia un "no". » si rispose da solo.
    Impiegarono nemmeno un minuto per raggiungere la porta della Sala delle Ore, l'ultima e più nascosta, sul fondo del salone.
    Kynval posò la mano sul chiavistello della porta e fece cenno a Tosca di attendere fuori.
    La donna rimise l'elmo e si piazzò a fianco dell'uscio, posò la mano sull'impugnatura della spada e si mise di guardia.
    Da fuori Kynval poteva avvertire chiaramente la forza vitale sprigionata della presenza all'interno della stanza.
    Spalancò la porta ed entrò chiudendosela alle spalle.
    Il caminetto sulla parete ovest emetteva una flebile luce arancione ed un piacevole tepore, ma la stanza era immersa nella penombra.
    Uno schiocco di dita e la fiamma del braciere si sollevò, le lanterne sulla parete opposta si accesero e il piccolo candeliere posato sulla scrivania in mogano al centro della stanza prese fuoco.
    Una cascata di lunghi capelli neri ricadeva oltre il bordo della poltroncina di velluto nei pressi della scrivania. Virginia si voltò, piantando le sue iridi blu come la notte dritte in quelle nere dell'Imperatore.
    « Benvenuta all'Eden, Virginia » disse lui.
    Quella si alzò dalla poltrona.
    Kynval si aspettava di vedere una bambina di dieci anni, al massimo, e dovette dissimulare lo stupore quando vide la ragazza innanzi a lui.
    Le guancie si erano fatte meno rotonde e il volto un poco più allungato.
    All'altezza del petto, sotto il corpetto e la camicia di batista, Kynval notò che erano apparsi due timidi rigonfiamenti.
    Notò anche che era anche diventata un poco più alta.
    Un poco.
    Si mostrava come una ragazza di quindici anni almeno, ma non erano passati che pochi mesi dall'ultima volta che l'aveva vista.
    Quello sì che era strano, anche per lui.
    Virginia afferrò i lembi della sua lucente gonna in raso color crema e fece la riverenza.
    « Eminenza » salutò.
    Kynval sorrise.
    Notò che tra le mani reggeva un libro nero, privo di iscrizioni sulla copertina.
    « Non è necessaria la riverenza » le disse, andando a sedersi alla poltrona dietro la scrivania. « Piuttosto, sono io a doverti porgere i ringraziamenti da parte della città: mi è giunta voce che hai contribuito a smascherare una venditrice di seta contraffatta, giù alle Forge. »
    Virginia si sedette nuovamente.
    « Sì, Eminenza. Quella donna ha tentato di far passare per seta di qualità un tessuto che mi è parso chiaramente differente » replicò lei, pizzicando la gonna con l'indice e il pollice della mano destra.
    « Si tratta di lampasso di scarto » spiegò l'imperatore. « Un tessuto serico, che di solito si usa per fare i tappeti. Qualche furbo ha pensato bene di provare a spacciare gli scarti di lavorazione per seta di qualità: la Gendarmeria arresta praticamente ogni giorno truffatori che vendono questa roba. Rovinano il commercio. »
    « Capisco... » annuì Virginia.
    « Bando alle ciance! » esclamò lui, tirando avanti la poltrona e mettendosi comodo. « Suppongo tu abbia scalato tutti i piani di Archades, da sola e senza attendere l'apertura dei cancelli dell'Eden per le udienze di domattina, per una ragione piuttosto pressante... »
    « È così, Eminenza » annuì lei. « So che voi siete un Alchimista, e speravo avreste potuto aiutarmi. »
    Kynval si portò la mano al mento.
    Gli parve strano: Virginia puzzava di magia lontano miglia, eppure aveva bisogno del suo aiuto.
    C'era qualcosa sotto.
    « Descrivimi il problema che ti affligge » disse, facendo un cenno con la mano.
    Virginia si alzò dalla poltrona e si avvicinò alla scrivania, posando sul piano il libro che aveva tra le mani.
    « Eccolo qui il problema, Eminenza » disse.
    « Non sai leggere? » domandò il sovrano, lanciando uno sguardo perplesso al tomo dall'anonima rilegatura bruna.
    « So leggere bene Eminenza » rispose lei, sorridendo. « Solo che le parole sul libro sono... sparite. »
    Kynval inclinò lievemente la testa.
    « Sei sicura che ci fosse realmente scritto qualcosa? » chiese con tono dubbioso.
    « Assolutamente! » esclamò lei.
    Non le piaceva che la sua parola fosse messa in discussione, constatò Kynval.
    O era solita dire sempre la verità, suppose, oppure era sua abitudine non raccontarla mai e poi mai.
    « Ho preso questo libro nella sagrestia della chiesa sconsacrata dove avete arrestato me e Clarice Agazi » spiegò Virginia.
    Ci mise un secondo a collegare il nome di Clarice a quello di Bradamante, ma rammentava bene l'episodio avvenuto al confine con Cleycourt.
    In particolare rammentava la parte con i Redivivi e i Lupi della Tempesta.
    « Ho potuto assistere al sacrificio » continuò la ragazza dai lunghi capelli corvini. « E sono assolutamente certo che il Prete di Maxwell leggesse da quel tomo come se fosse un breviario, o una bibbia. »
    Kynval allungò la mano verso il tomo.
    Appena lo toccò venne folgorato da una scarica di energia.
    Ritrasse la mano di scatto.
    Un sortilegio.
    Molto potente constatò, massaggiandosi il polso.
    Avrebbe dovuto aspettarselo.
    « Interessante » commentò, concentrandosi per affrontare la scarica energetica e allungando nuovamente la mano.
    Tirò il libro verso di sé e lo aprì.
    Bianco come il latte.
    Scorse velocemente le pagine, trovandole tutte immacolate.
    Chiuse il tomo e lo sollevò, portandoselo al naso.
    Inspirò.
    Alzò gli occhi e vide che Virginia lo stava osservando con aria perplessa.
    Posò il tomo.
    « Chi ha lanciato questo sortilegio ha ponderato con grande attenzione le sue componenti, per ingannare al meglio gli sprovveduti » disse. « A prima vista sembra un diario, costoso e di ottima qualità, fresco di cartiera e pronto per essere vergato... Ma se lo annusi sa di libro vecchio. »
    Virginia non parve particolarmente sorpresa.
    « Si tratta di un sortilegio di mimetizzazione » continuò il sovrano. « Molto simile agli amuleti di Drago Specchio: altera la luce che l'occhio riceve, creando un'illusione. »
    Questo invece stupì la ragazza.
    « Siete in grado di annullarlo? » domandò Virginia, con gli occhi che brillavano.
    Letteralmente.
    Perché le brillavano gli occhi di azzurro?
    -Un problema per volta.- pensò, sospirando.
    « Annullare un incantesimo non è facile » rispose. « Il metodo più veloce è trovare la sorgente di forza vitale che lo alimenta e distruggerla. Questo libro non sembra averne una: è probabile che sia alimentato dall'energia dell'ambiente circostante. »
    Virginia sospirò.
    « La prego, è importante » implorò.
    Kynval si alzò dalla scrivania.
    « Si tratta di un libro sacro del Culto dell'Occhio insanguinato. Sul fatto che sia importante non ho dubbio alcuno » le disse sorridendo. « Posso provare a tranciare il collegamento che alimenta il sortilegio, ma non ti garantisco il successo assoluto. »
    Virginia sorrise.
    « Grazie, Eminenza »
    « Non ringraziarmi, ancora » replicò lui.
    Distese la mano in direzione del tomo, con il palmo rivolto verso il soffitto, e lentamente la mosse verso l'alto di un paio di spanne.
    Il libro si sollevò dalla scrivania, prendendo a fluttuare a mezz'aria sopra al ripiano di mogano.
    Virginia fece un passo indietro.
    Kynval inspirò.
    Chiuse gli occhi.
    La mano gli prudeva.
    Era in grado di avvertire chiaramente l'energia vitale che fluiva all'interno del tomo, ad alimentare il sortilegio.
    Si concentrò.
    Il nero innanzi a lui iniziò ad illuminarsi di una luce azzurra, che delineava delle forme familiari.
    Vedeva il contorno della sua stessa mano, che teneva alta davanti al suo volto. Vedeva le fiamme del caminetto crepitare come una forma pura d'energia azzurra, le lampade e il candeliere acceso. Vedeva la sagoma di Virginia di fronte a sé, che osservava la scena. Vedeva Tosca Volterra, fuori dalla porta, con la schiena diritta e la mano sull'elsa della spada.
    E vedeva il libro.
    Vedeva il tomo brillare di una luce talmente forte che quasi soverchiava tutte le altre.
    Tentacoli di energia, simili a saette, promanavano dal tomo puntando verso le fiamme accese nella stanza e verso il pavimento.
    Alzò il braccio.
    Inspirò.
    Calò il braccio con forza, tranciando con una scarica di energia i tentacoli che il sortilegio usava per alimentarsi.
    Vide i tentacoli dissolversi e il tomo perdere lucentezza.
    Sorrise.
    Fu un attimo.
    Dal libro partirono altre quattro saette.
    Virginia saltò indietro.
    Le lampade e il candeliere si spensero di colpo e la fiamma del camino fu come attratta verso il libro.
    Una scarica investì in pieno l'imperatore, che venne scaraventato indietro.
    Il tomo ricadde sulla scrivania in un tonfo e lui sbatté la schiena contro il davanzale del finestrone sul fondo della Sala delle Ore.
    « Eminenza! » gridò Virginia, correndo verso il sovrano.
    « Eminenza! » urlò Tosca, spalancando la porta e fiondandosi dentro con la spada bastarda tra le mani.
    « Sto bene! » esclamò Kynval, tirandosi in piedi.
    Tosca rinfoderò la spada e sia lei che Virginia tirarono un sospiro di sollievo.
    « Che cosa è successo? » domandò la magister. « Da fuori ho sentito un botto. »
    « Io ho visto le lampade spegnersi e una lingua di fuoco balzare fuori dal camino! » esclamò la ragazza, massaggiandosi la folta capigliatura corvina. « Per poco non mi incendiava i capelli! »
    « Ritorno di Fiamma » rispose il sovrano, massaggiandosi la schiena. « È un sortilegio molto ben congeniato: appena ho tranciato i collegamenti energetici è scattato un meccanismo di sicurezza che li ha rigenerati e mi ha scagliato addosso un'ondata di energia presa direttamente dall'ambiente qui intorno. Per questo le lampade si sono spente. »
    « Per tutti gli Dei » commentarono le due, quasi in coro.
    « Quindi non è possibile annullare l'incantesimo e leggere il contenuto di quel libro? » domandò Virginia, guardando il tomo con aria sconsolata.
    Kynval si sentì ferito nell'orgoglio.
    « Non mi arrendo così facilmente. » disse con tono deciso. « Voglio fare un altro tentativo. »
    Si avvicinò alla scrivania, sotto lo sguardo incuriosito di Virginia e Tosca, aprì un cassetto e recuperò una piccola chiave dorata.
    « Venite con me » disse, uscendo dalla Sala delle Ore. « Porta il libro. »
    Virginia afferrò il tomo dalla scrivania e, seguita dalla magister, tenne dietro all'imperatore.
    Puntò dritto verso l'uscita dell'Ala Privata del Palazzo.
    Superò il portone, imboccò il Corridoio Nord e si fermò innanzi alla prima doppia porta alla sua destra.
    Infilò la chiave nella toppa e le fece fare quattro giri a destra, poi uno a sinistra.
    Dodici scatti metallici rimbombarono lungo il corridoio, attirando l'attenzione di una donna con indosso il vestito color turchino scuro della servitù che era intenta a pulire il pavimento di marmo sul fondo del corridoio.
    « Che cosa c'è qui dentro, Eminenza? » domandò Virginia, probabilmente intuendo dagli scatti il numero di chiavistelli a protezione della porta.
    « Il mio laboratorio, ovviamente » rispose lui.
    Kynval posò la mano sulla maniglia della porta e spinse con forza.
    La doppia porta si spostò lentamente e lungo il lato era possibile vedere chiaramente che il legno componeva solo un sottile strato esterno: l'intero uscio era foderato di metallo.
    « Aspetta qui, Tosca, per favore » disse alla magister, che portò il pugno al cuore con decisione.
    Kynval entrò seguito da Virginia.
    L'ennesimo schiocco di dita e le lampade sul soffitto si accesero.
    Passarono attraverso un tavolo su cui erano accuratamente disposti otto martelli di dimensioni crescenti accoppiati a svariate pinze e al crogiolo di una forgia spenta affiancato da una grossa incudine e da una vasca colpa d'acqua salmastra.
    Kynval passò accanto ad una morsa in cui era serrato un moschetto e ad uno scaffale colmo di lingotti d'acciaio, bronzo, rame e oro. Una lama di puro argento era adagiata su un panno al centro di una scrivania che occupava il muro più lontano della stanza. La seconda metà dell'Officina era quasi completamente sgombra: il pavimento in pietra ruvida era totalmente in vista mentre alle pareti erano appoggiati scaffali colmi di libri, boccette di vetro colorato e alambicchi per distillare. Un astrolabio era posato su un ripiano vicino, accanto ad un paio di occhiali dalla montatura mobile e dotati di decine di lenti colorate.
    Si sentiva odore di zolfo misto a gesso.
    Raggiunse l'altro lato della stanza e si voltò indietro.
    Virginia era rimasta ferma accanto alla forgia, ad ammirare il moschetto stretto nella morsa.
    « Virginia! » la chiamò.
    La ragazza tornò dal mondo dei sogni e si voltò verso di lui.
    « State cercando di costruire un moschetto, Eminenza? » domandò, indicando l'arma.
    « No » rispose ridacchiando. « Costruire armi da fuoco è proibito, gli unici a poterlo fare sono gli Armaioli. »
    « Allora perché avete quest'arma nella morsa? » chiese Virginia. « Se posso chiedere, ovviamente. »
    « Domandare è lecito, e rispondere è cortesia » replicò lui. « Mi limito a smontarla e rimontarla. Sono un Alchimista dopo tutto: voglio sapere come le cose funzionano. »
    « Ma non divaghiamo: abbiamo un lavoro da fare » aggiunse poi, togliendosi la giubba rossa, posandola sulla sedia della scrivania e rimboccandosi le maniche della camicia.
    « Cosa devo fare? » domandò la ragazza, osservando il sovrano con aria curiosa.
    Kynval la afferrò per le spalle e la fece sedere.
    « Reggi il libro e osserva » le disse sorridendo.
    La ragazza si limitò a sfoderare un'espressione di pura perplessità, e senza dire nulla si mise comoda.
    Kynval allungò la mano verso un cassetto della scrivania e tirò fuori un pezzetto di gesso.
    Si voltò verso il centro della stanza, ampio e completamente sgombro, si chinò a terra e iniziò a tracciare una linea con il gesso sulla pietra ruvida.
    « Un Cerchio Alchemico? » domandò Virginia, inclinando la testa mentre osservava il sovrano muoversi in tondo tenendo il gesso ben piantato a terra.
    « Non proprio » rispose lui, chiudendo il cerchio stilizzando la testa di un serpente che si mordeva la coda.
    « Non avevo mai visto disegnare un cerchio alchemico in questo modo » commentò la ragazza, saltando giù dalla sedia e facendo un giro intorno al disegno. « Perché hai aggiunto quella testa di serpente, invece di chiudere il cerchio come fanno tutti gli alchimisti? »
    « Perché il Cerchio e l'Uroboro rappresentano un limite magico invalicabile » rispose lui, prendendo a disegnare una serie di cerchi equidistanti in corrispondenza del bordo. « In Alchimia sono essenziali per impedire che il risultato della trasmutazione si disperda e l'oggetto venga distrutto. Ma tra i due c'è un abisso: l'uno funziona da semplice barriera, e quindi gli elementi trasmutati non potendo disperdersi semplicemente restano nel punto dove l'alchimista li posiziona, l'altro invece rappresenta l'eterno ritorno e la ciclicità delle cose. In parole povere Il Cerchio è un blocco forzato, l'Uroboro un sistema per indicare agli elementi trasmutati dove devono andare spontaneamente a posizionarsi. Il risultato è una trasmutazione più lenta, ma più stabile, precisa e potente. »
    Virginia fece cenno di aver capito e Kynval tornò al disegno.
    Si domandò se fosse il caso di limitarsi alla tradizionale Pentade Alchemica, ma scacciò subito dalla mente quel pensiero scellerato.
    Non voleva rischiare.
    Fece mente locale per qualche secondo e poi tracciò una linea ondulata che tagliava a metà il primo cerchio che aveva disegnato.
    - Anima -
    Si mosse in senso orario e nel secondo cerchio disegnò un Ankh.
    - Vita -
    Un sole splendente andò a riempire il terzo cerchio, la stilizzazione di un vortice il quarto mentre tre linee ondulate orizzontali il quinto.
    - Luce, Aria e Acqua -
    Nel sesto cerchio tracciò una linea orizzontale, nel settimo una fiammella crepitante e nell'ottavo un sole nero.
    - Terra, Fuoco e Oscurità -
    Infine, nel nono cerchio, fece per disegnare un Ankh rovesciato ma si interruppe.
    Era il caso di rischiare così tanto?
    Giocarsi l'Anima per una incomprensione?
    No, meglio di no.
    Corresse la linea verticale dell'Ankh in un tronco e disegnò un possente albero, che affondava le sue radici nel terreno e la chioma svettante verso il cielo.
    - Morte... -
    Il pensiero lo inquietò.
    Congiunse i cerchi con delle linee rette che andavano da un capo all'altro dell'uroboro, disegnando una stella a nove punte.
    « Sono gli elementi che compongono il mondo? » domandò Virginia, osservando i simboli sulle punte dell'inquietante ennagramma.
    « No » rispose lui, disegnando un grosso Ankh al centro della stella e tracciandovi vicino due cerchi, uno sopra e uno sotto. « Questi simboli rappresentano le fonti d'energia che i maghi possono usare per alimentare qualsiasi sortilegio. Una forma scritta di Metamagia, in pratica. Gli elementi vengono adesso... »
    - Quello è un libro di carta... Cosa c'è nella carta? - si domando. - Cellulosa. E poi che altro? -
    Si alzò in piedi e raggiunse uno scaffale colmo di libri spessi quanto una mano.
    Afferrò un tomo sul cui dorso era incisa una grossa "C", lo posò sulla scrivania e lo aprì.
    Trovò immediatamente la pagina dedicata alla carta.
    - Cellulosa, Emicellulosa, Lignina... - lesse.
    Sotto ogni nome erano disegnati una serie di simboli runici, uniti insieme da delle linee rette a formare un piccolo reticolo.
    - Carbonio, Idrogeno, Ossigeno... -
    Prese il libro in mano e ricopiò con cura i simboli e i reticoli posizionandoli lungo il bordo del cerchio sotto al grosso Ankh che campeggiava nel mezzo della stella a nove punte.
    Rammentò che doveva tener conto anche della rilegatura in cuoio, e dell'inchiostro. Immediatamente andò a cercare il volume con elencati gli elementi che gli servivano.
    Per sicurezza cercò gli elenchi della composizione di tutti i tipi di inchiostro o tintura che gli venivano in mente.
    Passò circa mezz'ora a copiare simboli e reticoli, sotto lo sguardo attento di Virginia che non si perdeva nemmeno un movimento della mano.
    Quando ebbe finito si tirò in piedi e rimise i libri sullo scaffale.
    « Per favore, Virginia, posa il libro sul pavimento, dentro a quel cerchio » disse, indicando il circolo contornato da rune e linee che aveva appena terminato di tracciare.
    Virginia annuì e mosse un passo all'interno del cerchio, prestando attenzione a non pestare le linee bianche.
    Non appena il tomo passò oltre il limite più esterno il cerchio iniziò a brillare di una leggera luce azzurra.
    La ragazza si ritrasse di colpo e Kynval si lasciò sfuggire una risata.
    « Non aver paura » le disse, sorridendo. « Sta solo reagendo alla presenza di altra magia. Non c'è alcun pericolo. »
    Virginia annui e rientrò nel cerchio che si illuminò nuovamente.
    Posò il libro dove le era stato indicato e tornò a sedersi sulla sedia.
    « Abbiamo quasi finito » la rassicurò lui. « Mi manca solo un'ultima cosa... »
    Raggiunse uno scrigno nell'angolo della stanza, lo aprì e si mise a rovistare all'interno.
    Tirò fuori un cannocchiale, un compasso e un sestante.
    Sbuffò.
    Non era lì.
    Rimise gli oggetti al loro posto e chiuse lo scrigno.
    Passò ai cassetti della scrivania.
    Nulla.
    « Dove diamine è? » si domandò, guardandosi in giro.
    « Cosa cercate, Eminenza? » chiese Virginia, osservando Kynval con curiosità.
    « Una... cosa. » rispose lui, fiondandosi verso un piccolo cofanetto che aveva adocchiato sul ripiano dello scaffale sulla parete a destra.
    « Eureka! » esclamò, tirando fuori un diamante grosso quanto un pugno.
    Virginia sbarrò gli occhi.
    « Ma è un gioiello enorme! » gridò esterrefatta. « Che cosa volete farci, Eminenza? »
    « Usare il più stupido di tutti i contro incantesimi » rispose lui. « Questo è un diamante purissimo, un vero miracolo della natura: ha una struttura cristallina perfetta, praticamente impossibile da replicare con l'alchimia, e composta solo da carbonio. Si tratta del miglior contenitore di energia magica esistente, e noi useremo l'energia vitale emessa dal tomo per alimentare una trasmutazione che drenerà altra energia dal libro e la scaricherà in questa gemma. Una volta esaurita totalmente la forza vitale che alimenta il sortilegio di mimetizzazione questo dovrebbe annullarsi. »
    Posò il diamante all'interno del circolo opposto a quello dove stava il libro, sopra all'Ankh, poi afferrò il gessetto e tracciò il reticolo di simboli che rappresentavano il carbonio.
    Quello lo conosceva a memoria.
    Gettò via il pezzo di gesso, ormai ridotto ad un sassolino minuscolo, e raggiunse la punta della stella in cui era segnato il simbolo energetico della vita.
    Virginia saltò giù dalla sedia e fece un passo indietro.
    Kynval congiunse le mani davanti a se.
    « Dea di tutti gli Dei, fa che non stia sbagliando nulla » mormorò.
    E infine toccò il cerchiò.
    Una luce blu esplose nella stanza costringendo Virginia a coprirsi gli occhi con le mani.
    Per una decina di secondi almeno Kynval rimase chino sul cerchio, con gli occhi chiusi, dirigendo la trasmutazione nel mezzo di quella luce abbagliante.
    E infine sollevò le mani da terra.
    Aprì gli occhi.
    La luce era scomparsa. Il gesso del cerchio alchemico era completamente sbavato e fili di fumo si sollevavano dalla ruvida pietra del pavimento.
    La prima cosa che notò fu il diamante che aveva preso a brillare di una intensa luce azzurra.
    E poi notò il libro.
    Sembrava ancora come nuovo.
    Si tirò in piedi, face un passo avanti e afferrò il tomo.
    Lo aprì.
    Bianco.
    Avvertiva ancora chiaramente l'energia che scorreva al suo interno.
    Sospirò.
    Virginia si avvicinò al diamante e allungò un dito.
    I timpani di Kynval furono trapanati da un urlo spropositato e la ragazza gli schizzò accanto correndo verso la vasca d'acqua della forgia reggendosi l'indice della mano.
    Kynval posò il libro sulla scrivania, andò a recuperare un paio di grosse pinze da forgia e raccattò il diamante luminescente.
    « Interessante » commentò, osservando il metallo della pinza diventare istantaneamente rosso a contatto con il cristallo. « Ha riempito un diamante che se messo su una Torre Arcana potrebbe difendere una città da un assedio di settimane, e ancora quel libro ha energia vitale da vendere... »
    Si grattò il mento perplesso.
    Raggiunse la vasca della forgia, in cui Virginia stava immergendo il dito che s'era scottata, e ci immerse il gioiello.
    Una colonna di vapore iniziò a scaturire ininterrottamente dalla superficie dell'acqua.
    « Ha funzionato, Eminenza? » domandò Virginia, lanciando un'occhiata verso il tomo posato sulla scrivania dall'altra parte della stanza.
    « No » rispose lui, sconsolato. « Mi viene da pensare che quel sortilegio, vista la potenza, sia di origine demoniaca. Forse lanciato da Maxwell stesso. In compenso ho sovraccaricato una gemma di energia... »
    « Allora non c'è proprio nulla che si possa fare per leggere cosa c'è scritto la sopra... » commentò Virginia con tono affranto.
    Kynval sospirò e si morse la lingua.
    Non voleva arrivare a quello, ma non aveva molte altre alternative.
    Ad eccezione di una trasmutazione per mezzo dell'Anima.
    No.
    Non l'avrebbe fatto.
    Aveva abusato troppo di quel potere in passato e non sapeva quanta resistenza avrebbe opposto il sortilegio sul libro.
    Distruggere la propria Anima e diventare un essere vuoto non era tra le sue più grandi aspirazioni.
    « Ancora qualcosa che si può fare c'è, anche se è pericoloso per l'integrità del libro stesso » disse a denti stretti.
    « Proviamoci, la prego » replicò lei.
    Non aveva chiesto nemmeno di cosa si trattasse.
    Aveva detto solo: "proviamoci".
    Ultimo tentativo quindi?
    Ne valeva la pena.
    Si voltò verso la morsa del moschetto e la raggiunse di corsa.
    Afferrò un piccolo sacchetto e lo portò alla scrivania, facendo cenno a Virginia di seguirlo.
    Prese il libro e lo mise di fronte a sé, poi aprì il sacchettino.
    Ne trasse una piccolissima quantità di polvere grigia e la spruzzò sulla copertina del volume.
    « Polvere da sparo » constatò Virginia.
    « Sì » replicò lui. « Nella sua combustione brucia qualsiasi forma di magia, annullandola. Volevo evitare di mettere questo libro a contatto con le fiamme, ma tutte le alternative non distruttive hanno fallito. »
    Virginia sospirò.
    « Se non funziona nemmeno questo il libro è comunque inutile, Eminenza » disse.
    « E allora proviamo » replicò il lui con decisione.
    Sollevò la mano e schioccò le dita.
    Una piccolissima scintilla cadde sulla copertina del libro e una fiammata azzurra si sollevò verso il cielo.
    Kynval afferrò il panno su cui era poggiata la lama d'argento e lo usò per soffocare le piccole fiammelle che si erano formate agli angoli della rilegatura nera.
    Sorrise.
    La copertina ora appariva vecchia, sgualcita e piena di strappi mentre il bordo delle pagine era frastagliato.
    Aprì il libro e scorse velocemente le pagine.
    Una fitta ed accurata calligrafia riempiva i fogli, intervallata di tanto in tanto da disegni rappresentanti un uomo e una donna.
    Si interruppe di colpo quando, tra le pagine gli parve di scorgere il disegno di una torre fortificata.
    Tornò indietro a cercarla e la trovò.
    Sorrise.
    Avrebbe potuto riconoscerla tra mille altre.
    Non lesse nulla né guardò altro.
    Chiuse il libro e lo consegnò alla ragazza.
    « Ha funzionato » disse, con tono allegro. « Ma avverto ancora la presenza dell'incantesimo: sta cercando di ripristinare le sue connessioni energetiche e rimettersi in funzione. E probabilmente ci riuscirà ben presto. Per leggere quel libro dovrai innaffiarlo di polvere da sparo praticamente ogni giorno. »
    Afferrò il sacchetto della polvere, lo chiuse e lo mise in mano a Virginia.
    « Non è molta, ma fanne buon uso » le disse.
    Sul bel visino della ragazza era apparso un sorriso.
    « Grazie, Eminenza » disse lei con tono allegro.
    Kynval si lavò le mani dentro un piccolo bacile che era posato sulla scrivania, si rimise a posto le maniche della camicia e rindossò la giubba rossa.
    « È stato un onore combattere contro un sortilegio di Maxwell » replicò lui, sorridendo. « Non ringraziarmi, quindi. »
    Con un elegante gesto della mano indicò la porta del laboratorio ed entrambi si avviarono verso l'uscio.
    « Posso offrirti una stanza, qui a Palazzo, se lo desideri » le disse.
    « La ringrazio per l'offerta, Eminenza, ma preferisco non fermarmi » rispose lei, con tono pacato.
    « Capisco » replicò lui, appoggiando la mano sul chiavistello e tirando la pesante porta corazzata del laboratorio.
    Tosca Volterra stava con la schiena poggiata contro il muro opposto rispetto alla porta dell'officina.
    Appena vide Kynval e Virginia uscire li raggiunse in fretta.
    « Eminenza » salutò, portando il pugno al cuore.
    « Accompagna Virginia all'uscita, per favore » disse.
    « Sarà fatto » replicò la donna in armatura, voltandosi verso ovest e facendo cenno alla ragazza di seguirla.
    « Spero di rivederti presto » disse Kynval a Virginia, portando il pugno al cuore e facendo un lieve inchino.
    La ragazza rispose con una riverenza, poi si voltò e seguì la magister.
    Sparirono ben presto oltre l'angolo in fondo al corridoio.
    Kynval si voltò ancora verso il laboratorio e raggiunse la forgia.
    Era sicuro che Virginia sarebbe tornata a fargli visita.
    Non si poteva esser sbagliato sul disegno che aveva visto in quel libro.
    Gli rimaneva solo un piccolo problema da risolvere.
    Afferrò un altro paio di pinze da forgia e tirò fuori dall'acqua della vasca il diamante rovente.
    Lo osservò per un paio di secondi.
    - E adesso cosa me ne faccio di questo affare? -

    Edited by Colonnello Wolf - 30/8/2014, 21:09
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  6. Toshiro Umezawa
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    Astrea rimirava meravigliata la scalinata di marmo bianco ed immacolato che conduceva gli stranieri al palazzo dell'imperatore di Archades: caldi raggi di sole si rifrangevano sulla superficie liscia del materiale edile, donando al tutto un'atmosfera sognante, onirica, sospesa a metà tra sogno e realtà.
    Sotto la scalinata si stendevano i tetti e le vie che formavano la città vera e propria: simile ad un formicaio efficiente ed indaffaratissimo, là sotto si muoveva un mondo brulicante di tante piccole forme che lavoravano, mangiavano, dormivano...vivevano la loro vita.
    Ed era stupendo osservare, anche solo da lontano, quelle figurine scure che passavano tra le case altissime, di tre o più piani, sotto le arcate di marmo bianco, oltre i portoni di legno, svolgendo i loro incarichi.
    Ignari, all'oscuro che in quel momento un essere privo di anima li stava guardando con un invidia bruciante nel petto.
    “Vorrei essere come loro. Niente pensieri, una famiglia a cui tornare, una casa, anche modesta, dove sentirmi accolta...e invece eccomi qui, in una città straniera, a vedermela con un futuro incerto e irto di sfide.”
    Non seppe dire quanto rimase ferma, lì sul posto, a fissare il labirinto di marmo e pietra che si stendeva sotto di lei: forse pochi secondi, forse alcune ore, fin quando non decise di volgere gli occhi verso la folla che si era stipata sulla rampa.
    E non fu una brutta idea, dato che la distrasse, almeno per un pochetto.
    Alle estremità degli scalini, come a formare un corridoio di statue d'acciaio brunito viventi, stavano col capo eretto, sentinelle e soldati: le loro corazze di ferro intarsiato rivelavano il loro grado di custodi dell'Eden, il santuario di Kynval e della moglie Helena, e le loro armi scintillavano alla luce esterna, minacciosi simboli di forza e prestigio.
    E, in quello splendore, un'autentica folla composta dai più disparati abitanti dell'Impero, e probabilmente anche oltre, si asserragliava sulle scale, in attesa di procedere nella sala delle udienze,o, come aveva sentito chiamarlo più volte in quella mattinata, il “Confessionale”.
    Volturiani aspettavano accanto ad una pianta di ibiscus il loro turno, gli occhi a mandorla socchiusi, meditabondi, le lunghe spade ricurve inguainate e legate al fianco, e le veste sinuose ed elegantemente delicate...
    Lusertiani avvolti in turbanti sibilavano e ringhiavano tra di loro: ogni tanto Astrea li vedeva ridacchiare sommessamente.
    “Chissà per quale motivo lo fanno...”
    E poi damascani che si dilettavano ad un gioco da tavolo portatile, composto di piccoli dischetti neri e bianchi: lo scopo del passatempo, apparentemente, era quello di “mangiare” i pezzi dell'avversario, come in una battaglia campale.
    Astrea osservò due giocatori per un po', fino a che non si stancò e non rivolse il suo sguardo alla fila che le stava di fronte.
    A poca distanza da lei, un gruppetto di nani con la barba d'argento si animava attorno ad un liutaio, forse volevano fargli suonare una canzone particolare, o magari perché secondo loro era troppo stonato...non avrebbe saputo dire.
    Il loro era un linguaggio indecifrabile, composto di suoni duri e sgradevoli all'udito.
    Dopo un po' smise anche di osservare ciò che la circondava, per mettersi a pensare: non era semplice, con quel caos di lingue e suoni, ma almeno doveva provarci.
    “Cosa vorrà significare? Cosa c'entra la mia arma con me, con la mia situazione? Vorrei avere delle risposte certe, ma....”
    Emise un lungo sospiro, posando per un attimo lo sguardo sui nani: erano ancora lì ad ascoltare il suonatore di liuto, ora impegnato in quello che sembrava un racconto epico.
    Passati alcuni secondi in ascolto della melodia, si accorse di provare una gran rabbia in corpo, ma non solo: era come se una sensazione di incertezza la governasse spietatamente.
    “Cosa potrò mai inventarmi per giustificare la mia presenza qui? Cosa dirò? Salve. Io sono una principessa fuggitiva e regicida, oltre che un essere privo di anima: vorrei tanto consultare gli Archivi del Magisterium, se per voi non è tropo disturbo...che ne dite?
    Non dubito di lasciarli spiazzati ma, con tutta probabilità mi caccerebbero fuori a pedate nel giro di pochi secondi, sempre che non decidano di condannarmi a morte seduta stante.”
    Sorrise tristemente nel figurarsi la scena: una sorta di blanda contentezza, una gocciolina di miele prima di ritrovarsi a fissare la dura ed amara realtà dritta negli occhi.
    Mollò un calcio davanti a sé per il nervoso, fortunatamente non centrando nessuno, ma procurandosi una botta contro il marmo dello scalino: si mise a saltellare per il dolore, per quanto glielo permettesse il poco spazio disponibile, finché il male non si attenuò.
    Se ripensava a come si erano svolti gli eventi...

    Era accaduto la notte dello scontro con Skolghia.
    La ragazza, dopo essersi tamponata alla meglio le ferite col mantello sbrindellato che portava, si era rifugiata nel forte abbandonato, con l'intenzione di riposare ma, incapace di prendere sonno, aveva deciso di consultarsi col vecchio Hohenheim, in merito al prodigio compiuto dalla sua spada.
    -Signore? Signor Hohenheim?-
    Mormorò piano le parole, trattenendo il respiro per l'emozione e quasi non credendoci, che non poteva essere vero che quella piccola perla potesse metterla in contatto con l'alchimista.
    Dapprima la pietra marina rimase immutata, liscia e perfettamente bianca: poi, come in risposta al segnale dato dalla ragazza, dal suo centro iniziò a diffondersi una sorta di nebbiolina rossa come sangue: similmente ad una nube di sabbia mossa sul fondo dell'oceano, quella che girava nella perla si addensò sul limitare della stessa, lasciandone intatto il centro, nel quale comparve il volto barbuto di Von Hohenheim.
    -Scusa, ero andato al bagno. Purtroppo soffro di certi disturbi renali e alla mia età...-
    Astrea fissò la perla con un vago senso di imbarazzo, ma per fortuna l'uomo si accorse che voleva chiedergli qualcosa: non chiese come se ne fosse reso conto.
    “Non è che sia proprio un piacere rivederlo.”
    Gli raccontò dello scontro con Skolghia, descrivendo il mostro nei minimi particolari: man mano che proseguiva nella narrazione, il volto dell'uomo diveniva sempre più tirato e preoccupato, ma la ragazza notò che era anche confuso...possibile che non conoscesse una bestia del genere?
    Scelse però di omettere la parte su Virginia e sul cavallo alato, oltre alla voce misteriosa che aveva udito nella sua testa: non le andava di raccontarlo a persone di cui non si fidava del tutto.
    “Meno persone sono a conoscenza i questi avvenimenti e meglio è: forse non è ancora fuori pericolo, e chissà chi altri è in ascolto in queste contrade. E poi...quella voce....non era la sua, ne sono sicura.”
    -Ragazza mia, cosa ti è successo?-
    -Come? Oh, mi scusi, ero sovrappensiero. Allora, lei sa spiegarmi perché la mia lama ha fatto...bè, quello che ha fatto?-
    -No. Non sono in grado di dirtelo con certezza.-
    Sulla faccia di Astrea dovette dipingersi un quadro di tristezza e delusione, perché il vecchio aggiunse subito che poteva formulare delle ipotesi, anche se molto labili.
    -Te lo ripeto, Astrea, non so perché la spada ha inflitto delle ferite simili, né conoscevo un essere simile prima che tu me lo descrivessi.
    Per come me lo hai riferito, l'episodio della tua lama parrebbe una reazione magica, ma non saprei come spiegartelo.
    Allo stato attuale delle cose, l'unico posto dove ti suggerirei di guardare è nel Magisterium di Archades.-
    -Il “Magisterium”? E che roba è? Non ho mai sentito questo nome prima d'ora!-
    -Mi stupisci. Davvero non hai mai udito il nome della fonte di sapere più ambita dagli eruditi dell'Impero? Lì sono conservati tomi su tomi di conoscenze arcane e potenti, e non a caso l'unico che può autorizzare una ricerca in quegli archivi è l'Imperatore stesso.-
    -Allora, che dovrei fare? Andare ad Archades e chiedere al sovrano un foglio con su scritto che la brava alunna ha il permesso di accedere ad un posto gelosamente protetto? Mi caccerebbero fuori in men che non si dica!-
    Il vecchio rimase pensieroso, il viso rugoso contratto nello sforzo di pensare ad una soluzione migliore, ma non gliene venne in mente nessuna.
    -Riguardo piuttosto alle spade argentee, avrebbe forse una traccia da darmi? Un indizio?-
    Il vecchio annuì, facendo ondeggiare i lunghi capelli biondi che portava sul capo.
    -So di un solo luogo dove, almeno in passato, abbiano forgiato armi fatte con l'argento, ossia i Monti del Sole morente.-
    -I Monti del Sole morente?-
    -Si tratta di una catena montuosa, appunto, che sorge sul confine nord-ovest di quello che è il regno di Voltur, ma a quanto ne so non ci vivono tribù, né vi è mai stato un qualche legame tra l'industria bellica e quelle regioni inospitali come poche ce ne sono al mondo: il nome lo avevo incontrato quando studiavo geografia all'Accademia, ma solo per accenni, di sfuggita capisci.-
    Astrea si raccolse mentalmente, facendo alcune brevi considerazioni: la prima mossa, la più ovvia che avrebbe dovuto fare, era recarsi ad Archades e chiedere un udienza, un incontro, o quel che prevedeva l'etichetta, con il governante della capitale imperiale, però quanto a dirigersi sulle sue sole gambe fino a quei monti che sembravano così lontani non sapeva proprio come fare.
    “Ci penserò quando sarà il momento: già la prospettiva di andare fin dall'Imperatore non mi entusiasma molto, ma se devo farlo...meglio mettersi il cuore in pace. Chissà, potrei incontrare Virginia lì...e magari farmi dare un bel pugno” soggiunse con un sorriso mesto.
    Dopodiché si era congedata da Hohenheim, e, il giorno seguente, alle prime luci dell'alba, si era messa in marcia fino a giungere, sfinita e con le gambe doloranti, alla fortezza di Pindemonte.
    Le ferite le facevano male, ma aveva resistito fino a lì: non poteva lasciarsi sopraffare dal dolore.
    Erano poi stati due mesi lunghi e difficili, fatti di marce forzate e di brevi soste. Aggregatasi ad una carovana composta da una moltitudine di gente, si era spinta fin nel cuore dell'Impero, attraversando le imponenti ossature della prima muraglia di difesa della città, quello che veniva chiamato il “Muro della Contrizione”, davanti al quale era rimasta basita, come molti altri suoi compagni: perquisita a lungo sia durante il passaggio del primo cerchio difensivo, sia nel secondo, era infine giunta davanti ai portali dell'Eden, o meglio, del palazzo imperiale, residenza di Kynval di Archades e di Helena Fontaine Solidor.


    A ripensare a tutti quei nomi altisonanti, Astrea si mise a ridacchiare tra sé: che pomposità si sarebbe dovuta attendere da quei due sovrani che mai aveva visto in faccia e di cui sapeva solo alcuni aspetti leggendari della loro vita?
    Una voce la riscosse definitivamente dai suoi pensieri: aveva un tono ufficioso eppure privo di derive in falsetto o irritanti; sembrava la voce di un vecchio servitore fedele.
    E infatti, alzando lo sguardo verso il palazzo, vide che il gruppetto di damascani davanti a lei era appena uscito dall'edificio marmoreo con l'aria afflitta, seguiti a ruota da un soldato armato di alabarda, e col capo coperto da un elmo a bacinetto sormontato da un singolo corno ricurvo verso l'alto.
    L'uomo le fece cenno di seguirlo, e la condusse fino alla sommità della scalinata: mentre Astrea vedeva l'ingresso farsi sempre più vicino, si ritrovò a tremare.
    “Che sia paura? No, sembra più ansia...ma in fondo, è logico: dovrei fare a meno di provare soggezione per essere ammessa al cospetto di due governanti così ammirati e temuti?”.
    L'uomo nella corazza la fece svoltare per una stradina a sinistra, invece di proseguire diritto e in breve tempo , percorrendo un viale adornato da numerose piante e colonne in gusto classicheggiante, giunsero al portico sotto cui si ergevano i cancelli della Sala delle Udienze.
    Il soldato le indicò l'ingresso dell'edificio, chiuso da un portone a doppia anta immenso, di bronzo dorato come l'oro fuso e finemente intarsiato di figure argentate: mostrava le più disparate scene, alcune di ambito quotidiano, altre militari, altre ancora di conversazione.
    Ma tutte, sembravano convergere verso il centro dove non stava scolpito, come si aspettava, il volto del sovrano, ma il suo simbolo, l'emblema del suo potere: un drago rampante e fiero.
    “Cosa vorrà significare? Che il vero sovrano dell'Impero sono i suoi cittadini?
    Che un vero imperatore è forte solo se tutti i suoi sudditi offrono il loro sostegno? Tipo strano Kynval.”
    Poi la porta si spalancò piano, non emettendo il minimo cigolio, mentre ruotava sui cardini ben oliati: quando fu aperta del tutto, Astrea mosse un timido passo dentro il salone.
    Quando fu dentro, la porta, silenziosa come prima, si chiuse alle sue spalle.
    “Mi ricorda qualcosa, questa scena.” pensò lei, mentre cercava di scacciare le sue preoccupazione dalla mente.
    -La signorina Astrea, giovane straniera, chiede udienza all'Imperatore di Archades, Kynval Solidor, e alla sua consorte, Helena Fontaine Solidor!-
    La voce, amplificata dall'enormità del salone, sembrava giungere da tutte le direzioni, come se abitasse le mura stesse: eppure, forse per un effetto voluto appositamente, si spense molto rapidamente, lasciando spazio ad un silenzio carico di tensione.
    Per quello che vedeva Astrea, quella stanza era imponente e stupenda: le pareti, alte e strette, la facevano rassomigliare ad una cattedrale: ampie vetrate decorate di mosaici colorati impreziosivano i muri, mentre un lungo tappeto rosso rubino si stendeva davanti ai suoi piedi, fino a terminare di fronte ad un rialzamento rispetto al resto del pavimento di marmo.
    Per il momento, gli eventuali occupanti del podio erano coperti da un tendone di seta blu elettrico, anche ammesso che ci fosse qualcuno lì dietro, e così Astrea si ritrovò a vagare con lo sguardo nella stanza, mentre avanzava lentamente.
    “Se non fosse che devo presentarmi al cospetto di due potenti, mi godrei lo spettacolo con ancor più stupore” pensò sgranando gli occhi.
    Notò che, nelle alcove tra le colonne che sostenevano gli archi della volta, erano state erette delle statue grandiose di soldati archadiani in tenuta perfetta.
    Spostando gli occhi dalla statua più vicina alla tenda e non notando alcun movimento al di là di essa, si disse che valeva la pena di osservare meglio quelle riproduzioni così fedeli di quelli che erano i conquistatori di Cleycourt.
    Si avvicinò con fare furtivo al simulacro di un uomo armato di scimitarra e ne osservò gli intarsi sull'armatura, le rifiniture della lama e lo strano movimento dell'elmo che si verificava ogni volta che la statua respirava.
    “Come?”
    Solo dopo che quella gli ebbe rivolto il muso puntuto contro, si accorse che quelle che aveva scambiato dapprima per statue erano invece soldati armati e pronti ad un intervento brutale contro qualunque potenziale minaccia.
    Dopo quell'amara scoperta, la ragazza ritornò lesta al centro della sala, preoccupata e, se possibile, anche imbarazzata.
    “Che figuraccia: bé, almeno non mi ha vista nessuno, a parte i...”
    In quel momento il tendone si aprì lentamente, lasciando la ragazza paralizzata dalla sorpresa.
    Davanti a lei si materializzò un tavolo rettangolare di legno scuro, dalle gambe intagliate a zampa di leone e coperto di una corta tovaglia di quello che sembrava lino.
    Ma non era tanto la tavolata ad averla sconvolta, quanto l'apparizione quasi subitanea di due persone abbigliate in vesti lunghe ed eleganti, forse confezionate con la seta o qualche altra nobile stoffa, dietro il mobile, ritte in piedi come altrettante statue: i due sovrani di Archades.
    Kynval e Helena Fontaine Solidor!
    Astrea, di riflesso, puntò lo sguardo verso gli occhi dei due regnanti, osservandone i lineamenti: sebbene entrambi giovani, sembravano però possedere un tipo di vecchiaia stanca, come quella che aveva visto addosso a suo padre prima che lo uccidesse.
    Il volto della donna era molto bello, affilato e circondato da una cascata di lunghi capelli biondi: sorrideva, in maniera vacua e delicato.
    Ma fu il viso di Kynval a intimorirla ben più di quello di sua moglie: nonostante fosse un bell'uomo, forse sulla quarantina, col pizzetto corto, i baffi da sparviero e i capelli neri tirati all'indietro, i suoi occhi parevano quelli di un predatore.
    Due perle nere che la osservavano con sguardo carico di arguzia e diffidenza.
    La trafiggevano con quella che, almeno per lei, era una spietatezza insostenibile.
    “Non riesco a fissarlo dritto negli occhi. Ma cosa mi succede? Cosa vedo in lui?” pensò la ragazza inginocchiandosi rigidamente a terra e rivolgendo il volto al tappeto rosso.
    Come da una distanza enorme, sentì la voce di una donna arrivarle alle orecchie.
    -Così, tu sei Astrea. Bene, bene. A cosa dobbiamo questa piacevole sorpresa?-
    Le parole erano state pronunciate dalla moglie di Kynval; il suo timbro era elegante, priva di inflessioni gutturali o gravi: sembrava il dolce gorgheggio di un usignolo in amore.
    “Checché ne dici tu, non mi sembri così sorpresa della mia presenza! Ma tanto vale stare al suo gioco...potrebbe ammorbidirli, chissà.”
    -Potenti regnanti di Archades, chiedo udienza presso di voi per una questione della massima urgenza: si tratterebbe infatti, della richiesta di un...di un...permesso.-
    Un permesso?
    “Brava scema, sembri davvero una ragazzina davanti alla maestra, così!”
    -Un “permesso”?
    Anche a quella distanza risaltò il tono perplesso nella voce di Helena Fontaine: Kynval non proferì parola, ma quasi poteva figurarselo mentre sollevava un sopracciglio in perfetto stile tragico: sorpreso, di vedersi di fronte una giovane sconosciuta che chiedeva un udienza per ragioni ancor più sconosciute.
    -Chiedo alle vostre altezze di concedermi l'onore di mettermi al vostro servizio: metterò la mia lama sotto il vostro comando, e le mie energie saranno a vostra disposizione per qualsiasi richiesta riterrete opportuna.-
    Passarono forse cinque minuti, carichi di un silenzio ben più assordante di qualunque rumore: sembrava addirittura essersi solidificato, tanto era piena di tensione l'intera stanza.
    -In cambio di “cosa”?-
    La voce spezzò la tranquillità minacciosa con il fragore di un tuono a ciel sereno, ed ebbe su Astrea il potere di paralizzarne i pensieri.
    Il tono che aveva udito era simile al ruggito di un grosso predatore esperto, un timbro possente e inflessibile, non malvagio, ma di certo sospettoso e attento ad ogni possibile minaccia: la voce di un capo, del sovrano di quello che era una potenza in terra.
    “Ecco perché in pochi hanno il coraggio di schierarsi contro di lui: chi mai oserebbe provarci?”
    Astrea sentì un rivolo di sudore colarle lungo il viso, goccioline che presto apparvero su tutto il volto, fino a ricoprirlo di una maschera umida e appiccicosa.
    “Quest'uomo mi spaventa...ne sono sicura, ha fatto qualcosa in passato...Datti..datti subito un calmata!-
    Il cuore le aveva preso a battere in maniera irregolare: i suoi sussulti agitati riecheggiavano nelle sue orecchie con l'impeto del pianto di un bimbo che si vergogni...e lei cos'era?
    “Avanti, respira piano e lentamente, brava così. Ora, rilassa i muscoli, cretina, cerca di mantenere il controllo. Dopo potrai sfogarti come una bimba che si attacca al seno materno, ora vedi di sbrigartela al più presto.”
    Cercando di ignorare gli sguardi che aveva puntati contro, e osservando ostinatamente il pavimento, rispose alla domanda di Kynval, quel semplice interrogativo che esigeva un responso con la violenza di un pugno.
    -In cambio vi chiedo il gentile e magnanimo permesso di accedere ai tomi conservati nel Magisterium Imperiale.-
    Anche alla sue orecchie, pur avendo posto la condizione nella maniera più educata possibile, essa risultava sterile e insensata: credeva davvero che Kynval le permettesse di mettersi al suo servizio se non fosse stato sicuro che lei non si sarebbe ribellata, o avesse abbandonato i suoi doveri e metà?
    “Che sciocca sono stata a venire fin qui...una stupida davvero! E' una richiesta troppo azzardata, una ricompensa troppo grande per una ragazza che si impegna a svolgere un servizio presso un potentato: chi mi assicura che, una volta svolti gli incarichi che mi assegnerà, mi darà ciò che ho chiesto?
    Scema, scema, scema!”
    -Un favore per un permesso. Un spada sotto il mio comando per dei libri: una vita al mio servizio in cambio dell'accesso ad un luogo ove sono conservati tomi importantissimi e per la maggior parte, contenenti informazioni riservate?-
    “Ecco, lo sapevo. Come ho fatto ad essere così ingenua?”
    -Accetto.-
    La parola attraversò il corpo e la mente della ragazza con la forza di una lancia acuminata.
    La pressione sull'impugnatura si allentò di un poco.
    La vasta sala echeggiò a lungo di quelle lettere, pronunciate con una pacatezza priva di qualsiasi inflessione diffidente o minacciosa: non poteva crederci.
    “Davvero potrò saperne di più su di me? Davvero potrò scoprire come porre termine alla mia dannazione, a questo vuoto?”
    -Alza lo sguardo, Astrea Lancaster. Non serve che tu abbia paura dei miei occhi.-
    Astrea si sentì paralizzata, di nuovo, dall'aura di potere che quell'uomo emanava come un fragrante e sensuale profumo velenoso: come faceva a conoscere il suo cognome, se si era presentata col solo nome?
    Nonostante i suoi timori, volse la sua vista agli occhi neri di Kynval, e ne vide il sorriso che egli mostrava sul suo viso: sentendosi rasserenata, azzardò un lieve inchino con la testa.
    -Come fate a sapere come mi chiamo, maestà?-
    -Oh, non avrai creduto che non ti avessimo fatta pedinare, tu e la ragazzina che ti accompagnava: sì, le nostre spie ci hanno riferito tutto di voi due.- disse la donna, notando lo sguardo sorpreso della giovane.
    La moglie di Kynval emise un lieve riso, prima di proseguire.
    -Sapevamo che esisteva solo una persona avente il tuo nome e cognome: saputo dell'incidente avvenuto al castello di tuo padre, non è stato poi difficile risalire a te e...-
    -Ma di questo parleremo in separata sede, mia cara: ora, altre questioni più pressanti richiedono la nostra attenzione.-
    Il tono di Kynval, quando si rivolgeva alla moglie-questo Astrea lo notò subito-era dolce, eppure per nulla sottomesso o mellifluo: con lei parlava da pari a pari.
    L'imperatore tornò ad osservare la ragazza inginocchiata.
    -Tu saresti perfetta per la missione che intendo affidarti: ho bisogno, infatti, di un soggetto senza identità, che non possa essere rintracciabile o ricondotto fino a me, per una spedizione molto pericolose oltre i confini dell'Impero.-
    Astrea aspettò che la voce si spegnesse, ma si accorse che essa non riecheggiava nel vasto salone come poco prima, arrivandole dritta nelle orecchie come se il suo interlocutore fosse lì di fronte a lei e non a qualche metro di distanza.
    -In pratica, dovrai divenire un burattino che cercherà di adoperarsi al meglio delle sue capacità per ottenere le informazioni che desidero: una spia sul suolo nemico che, sotto falsa copertura, dovrà scoprire quanto più può sui potenti di quel paese.
    Ragazza, se il desiderio di ottenere l'accesso a quei tomi è così forte in te, se il tuo obbiettivo è così importante, ti dovrai recare a Voltur, nel cuore del Khanato d'Occidente.-
    “Voltur? Ma....è la stessa nazione dove sorgono le montagne che il vecchio mi ha indicato. Che sia una coincidenza? Ma no, impossibile: non credo alle coincidenze, nemmeno se ne vedrò una ballarmi nuda davanti agli occhi.
    Però, questa missione, non credo che Kynval assegni incarichi di questo genere a chicchessia senza averne la competa fedeltà.”
    -Cosa accadrebbe se...mettiamo caso...mi defilassi prima di portare a termine l'obbiettivo?-
    Di nuovo, quando parlò, la sua voce non riecheggiò nel vuoto locale: forse c'era una qualche magia all'opera, per evitare che le informazioni veramente preziose non venissero udite da orecchie maligne.
    Non poteva saperlo con certezza.
    Kynval si sporse in avanti per osservarla meglio: unendo le mani come in preghiera, sembrava più sulfureo che mai, con quel sorriso che si dipanava da parte a parte del suo viso.
    In Astrea si ripresentò la stessa sensazione di intimidazione: il potere emanava in maniera dirompente da quell'uomo.
    -Credo che non ci sia bisogno di aggiungere che, in quel caso, che so che non si verificherà, non avrai scampo in nessun angolo della terra: i traditori verranno puniti in modo esemplare, finanche fossero fratelli o figli.
    Rammentalo bene, Astrea Lancaster.-
    “Non ce ne sarà bisogno, Imperatore. Non sono mica così pazza da farlo sul serio, specie se calchi così bene una minaccia facendola passare per una frase innocua, ma almeno mi sono sincerata sul tuo conto, Kynval.”
    -Allora, accetto.-
    Il sovrano annuì con vigore, divertito dalla sua determinazione.
    -Sarai le mie orecchie? Le mie labbra, i miei occhi, la mia mente, straniera in terra straniera?-
    -Sarò tutto ciò che voi mi direte.-
    -Adempirai ai tuoi incarichi senza trasgredire i miei ordini?-
    Astrea indugiò solo un momento, prima di dire di sì.
    “Speriamo solo che non mi chieda di uccidere a sangue freddo.”
    -Allora, Astrea Lancaster, d'ora innanzi, il cielo mi sia testimone, divieni mia servitrice: possa il tuo passo essere leggero e la tua lama letale per i nemici che ti si parranno di fronte.-
    La ragazza annuì con lentezza: forse era solo l'enfasi del momento, forse era solo una sua fantasia, ma si sentiva solenne mentre accettava quei voti.
    “Non ho altro modo per accedere a quei tomi riservati, se non questo: prego solo perché tu sia un uomo di parola, Kynval.”
    -Ottimo!-
    La sala, da immersa nella tensione qual'era, sembrò sollevata da una cappa pesante e appiccicosa: i due sovrani si mossero verso una uscita alle loro spalle che conduceva fuori, all'aria aperta, e Kynval fece cenno ad Astrea di seguirli.
    La ragazza venne introdotta oltre una tenda che, dalla sua posizione nella Sala non aveva notato, tanto si confondeva con le altre pareti, in un terrazzo spartano, ma elegante: aiuole di fiori delimitavano il piccolo giardino interno che Kynval aveva fatto ricavare, un'alcova di pace e verde per sé e sua moglie, mentre alcune piante erano state piantate in grandi vasi: c'erano ulivi, albicocchi e peschi.
    I tiepidi raggi del sole, rifrangendosi sulle foglie della vegetazione circostante, riscaldavano quell'oasi in una maniera suggestiva, che piacque molto alla ragazza.
    “Devo ammettere che è molto bello qui, anche più bello dei giardini del castello di p...di papà.”
    Una volta sicura che nessuno dei due sovrani la guardasse, si asciugò lesta le lacrime con il dorso della mano.
    Mentre Helena disse di volersi ritirare prima di assistere all'udienza successiva, Kynval invitò Astrea a prendere posto su una delle sedie.
    La ragazza, benché imbarazzata, decise di accettare quella cortesia così inattesa, chiedendosi con trepidazione cosa sarebbe seguito.
    Volgendo lo sguardo verso un angolino del giardinetto, notò una grossa palla di pelo nero che dormiva placidamente in una cesta di vimini, sopra un bel cuscino dall'aria comoda e soffice.
    Solo dopo alcuni secondi si accorse, dai suoi movimenti, che era un gatto dal manto lungo e lucido.
    -B-Bernardo?-
    La bestiolina si drizzò, nel sentire quella voce: dopo un breve stiracchiamento, si diresse, con la solita aria di superiorità dei gatti, verso la ragazza, e le saltò sul grembo, facendole le fusa, soddisfatto.
    Astrea rimase basita, nel ricordarsi del suo vecchio gatto, che non aveva più visto da quando si era allontanata dai suoi genitori, più di due anni prima.
    -Vi conoscete?-
    -Io...sì, cioè...quello era il mio animale da compagnia, un volta...-
    Kynval sembrava divertito da quella scenetta, e per un po' non proferì parola: forse per cortesia, forse per farla calmare un pochino.
    Astrea non sapeva dirlo con certezza.
    “Ma lo apprezzo.” pensò mentre grattava delicatamente Bernardo dietro l'orecchia destra e si godeva il tocco caldo del sole sulla pelle diafana.
    -Allora- disse l'Imperatore dopo alcuni minuti- veniamo al dunque. Non abbiamo molto tempo prima che io debba congedarti, almeno per il momento, per cui vorrei approfittare di questa breve lassa di pace per discutere con te sui particolari della missione.-
    Astrea rimase in ascolto, facendo un cenno positivo con la testa.
    -Ciò che ti richiedo è di infiltrarti nella corte del Khan di Voltur: dovrai annotare quante più informazioni possibili su eventuali traffici tra i potenti di quel regno e un'organizzazione molto influente che opera, attualmente, per il nostro paese.
    Suppongo tu abbia sentito parlare della Setta degli Armaioli, vero?-
    -A dire il vero no.-
    -Ti basti sapere allora che essi producono la polvere da sparo indispensabile per le armi da fuoco. I nostri servizi di spionaggio hanno scoperto che alcuni nobili e generali volturiani potrebbero essere implicati nei traffici con quelli là, ma sfortunatamente i nostri agenti sono stati tutti o uccisi o rispediti ad Archades, per questo ci serve una persona come te.-
    Astrea capiva bene cosa avrebbe comportato tutto ciò, ma ancora non comprendeva perché proprio lei.
    -Come lo sapevate?-
    -Cosa?- fece di rimando Kynval.
    -Che io sarei giunta fin qui e sarei stata la tipa giusta per voi? Come facevate a saperlo?-
    Il sovrano emise un lungo sospiro che lo fece sembrare ancora più affascinante agli occhi della ragazza, mentre faceva le coccole a Bernardo, grattandolo dietro le orecchie.
    -Abbiamo fatto delle indagini nel castello di tuo padre: per ora non sono interessato a chiederti cosa sia successo lì, ma certo capirai che, saputo il tuo coinvolgimento in quella faccenda, il passo successivo sarebbe stato cercarti.
    E, casualmente, ti trovammo in compagnia di una mia “vecchia conoscenza”, se così si può dire: quando l'ho scoperto, ho fatto in modo di predisporre un aiuto per il vostro cammino. Volevo condurti fino a qui, in verità per saperne di più sul tuo conto: sospettavo un tuo coinvolgimento con la Setta, ma il tuo odore non me lo suggerisce.-
    -Il mio...il mio odore?-
    Kynval agitò una mano, come ad invitarla a lasciar perdere.
    -Nulla di importante: ciò che conta è che tu abbia capito il tuo incarico.
    Ora, cosa ancor più pressante è fornirti un alibi convincente per la tua missione: a questo proposito, l'unico che sia abbastanza credibile da darti una chance di riuscire nell'impresa è l'operato religioso: ci sono molti preti e suore che, specie nel Nuovo Mondo, diffondono il culto di Sant'Agata.
    Potresti farlo tu a Voltur, ciò ti darebbe una possibilità di infiltrarti senza destare sospetti.-
    Calò un breve silenzio, nel quale erano udibili solo le fusa del gatto.
    -Ci sono stati altri che hanno tentato questa via?- chiese Astrea.
    -Sì, certo, e i più fortunati sono tornati a casa con un arto mancante, ma chissà, dopo anni, potrebbero essersi rasserenati.
    Non ho mai detto che sarebbe stato facile.- aggiunse, notando il viso stanco di Astrea.
    -Non è per quello, solo...solo qualche pensiero vagante, nulla di più.
    Piuttosto, devo avvisarla che io non conosco nulla della religione di Sant'Agata, cioè sì, pregavo ogni tanto, ma sul dogma non so niente: come pensa di trasformarmi in una passabile missionaria?-
    La ragazza fissò a lungo il volto di Kynval, aspettandosi di vedere la delusione dipingersi nei suoi occhi: ma, con sua enorme sorpresa, l'Imperatore abbozzò un sorriso divertito e quantomai strano, ambiguo.
    Più simile ad un ghigno sarcastico.
    -Effettivamente, questo potrebbe essere un problema, ma credo che la mia soluzione ti permetterebbe di ottenere una possibilità in più, se non una libertà di movimento ben maggiore.-
    -Ovvero?-
    -Dì, Astrea Lancaster, hai mai pensato che un giorno saresti divenuta una rifugiata Agazi?-
    -No certo che no, perché questa doman...Aspetti un secondo!-
    La faccia di Kynval era però inequivocabile.
    -Esatto: siccome molti Agazi sono scappati dai campi di raccolta, ora come ora sono solo sbandati, e quindi una ragazza, dispersa, che cercasse rifugio oltre i confini dell'Impero oppressivo verso il Khanato d'Occidente non desterebbe nessun sospetto. Allora, Astrea la rifugiata Agazi, cosa ne pensa?-

    Edited by Toshiro Umezawa - 1/9/2014, 20:43
     
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    “Ben presto scoprirai da sola cosa si cela tra le pagine di quel libro.”
    Quel ricordo era vivo nella mente di Virginia mentre seduta a un tavolo, apriva il libro; la luce di una lampada illuminava la carta ingiallita, frastagliata: le parole che vi erano scritte erano leggermente sbiadite, ma ben leggibili e a un occhio più attento parevano scintillare.
    Il caminetto alle sue spalle crepitava, diffondendo un piacevole tepore per tutta la stanza; il chiarore della luna filtrava dalle imposte disegnando linee parallele sul pavimento in legno.
    Virginia prese il bicchiere colmo di liquore dal tavolo, la bottiglia di “Alito di fuoco” poco più in là, traslucida sotto la fiamma ardente della lampada, e ne bevve un sorso, digrignando i denti quando il forte alcolico le scivolò in gola, bruciandola.
    Rimise il bicchiere al suo posto e tirò a sé un foglio di carta, un calamaio in feltro, traboccante inchiostro, e vi intinse la penna d’oca; dopo aver scritto alcune parole in un angolo del foglio Virginia poggiò la penna sul piattino del calamaio, chiuse quest’ultimo con il suo coperchio e ripose le attenzioni al libro, cominciando a leggere le prime pagine.

    Secoli orsono, chi possedeva delle abilità che trascendevano il limite umano, era definito demone.
    Essi erano disprezzati, temuti e da alcuni, adorati, poiché col solo sguardo, con una stilla del potere da loro posseduto, sarebbero stati capaci di rompere la pace raggiunta dopo estenuanti guerre, trasformandosi così in meri mezzi per la conquista. E per perseguire la pace tra i popoli, chi nasceva con quel dono maledetto, era destinato a morire nei primi anni di vita.
    Migliaia di fuochi accesi, un’ecatombe di neonati ancora in fasce, segnarono i secoli più oscuri del mondo per i decenni a venire eppure, più il tempo passava, più bambini maledetti nascevano e alcuni cominciarono a credere che quel potere fosse il semplice dono offerto dalle divinità.
    Fu allora che la popolazione si divise tra chi desiderava perseguire la pace, estirpando i demoni sul nascere, tra gli ambiziosi che volevano solo la guerra, l’espandersi nel mondo conosciuto, e chi considerava la vita il dono più grande, nel bene e nel male.
    Tra due delle tre correnti di pensiero scoppiò una guerra dove gli ambiziosi, con i loro giovani dai poteri smisurati, sottomisero i perseguitori della pace, incapaci di contrastare quella forza sconfinata, distruttiva. Essi appiccarono il fuoco ai villaggi nemici, diffondendo le fiamme in ogni angolo con i venti da loro stessi creati; battendo le mani, la terra tremò, s’aprì in due, inglobando tutto e tutti, finché dei perseguitori della pace ne rimasero ben pochi, dispersi nel vasto mondo.
    Questi ultimi, dopo anni di pellegrinaggio, si unirono tra le file della terza corrente di pensiero, accantonando il loro fasullo desiderio di pace, ormai tramutatosi in un lago di cenere e sangue; e dopo aver compreso il terribile destino serbatogli per l’uccisione di tutti quei bambini, promisero che mai più la morte sarebbe stata un mezzo per il raggiungimento della pace.
    In quel villaggio pieno di vita, i perseguitori rimasero sorpresi nell’ammirare l’ordine e l’armonia che permeava tra la gente: gli uomini si avvicendavano nei lavori di tutti i giorni, arando i campi e andando a caccia, mentre alcune donne e parte degli anziani si riunivano attorno a un grande albero, dove un tempo ardeva il fuoco della morte, il ricordo di un passato non poi così lontano, insegnando a tutti i giovani, senza alcuna distinzione, la cultura del mondo.
    I bambini maledetti non erano disprezzati, isolati, gettati sulla strada della vita come panni stesi ad asciugare, bensì indottrinati sui loro poteri da chi più ne conosceva, memori degli anni oscuri, affinché possano imparare a utilizzarli ma soprattutto, controllarli. E tra quei giovani desiderosi d’apprendere, seduti attorno alla quercia della nuova vita, c’era Fallon.
    Egli era un ragazzo forte e dai poteri inimmaginabili, tanto da esser un gradino sopra gli altri posseditori del dono; riusciva in tutto, dal curare i morenti, privati d’ogni speranza, al creare la vita dalla semplice terra. In molti erano certi che un giorno, quel giovane dalle abilità ancora più fuori dal comune, avrebbe fatto la differenza e quel momento giunse presto, inaspettato, quando il villaggio, al sorgere del sole, si ritrovò avvolto dalla completa oscurità.
    Mura immense, talmente alte da occultare la luce del sole, in una notte avevano avvolto il villaggio in una spessa e invalicabile gabbia di pura pietra; artefici di quel terribile spettacolo erano gli ambiziosi, i signori della guerra con i loro bambini maledetti divenuti adulti, desiderosi di portare avanti la volontà d’espansione e conquista maturata anni prima con la distruzione dei perseguitori della pace.
    Incapaci di abbattere quelle mura, con il passare dei giorni e delle settimane, la prigionia rivelò i lati peggiori dell’uomo: cibo e acqua erano in calo, i campi e i fiumi oltre quelle mura, e la gente incolpava i nuovi arrivati dell’aver attirato il nemico, con questi ultimi che attaccavano le dubbie scelte dei primi e la loro idea di pace, arrivando a desiderare la morte dei bambini maledetti.
    La faida era prossima ma fu a quel punto che Fallon si erse come salvatore; sollevò le braccia al cielo e circondato dal popolo sottomesso dai cattivi sentimenti urlò che tutto sarebbe tornato come prima, che la pace avrebbe ripreso a scorrere nel villaggio e nei cuori della gente, come un fiume e i suoi affluenti; ed è ciò che accadde.
    Bastarono quelle parole e le mura si sgretolarono alla velocità di un battito di ciglio, lasciando attoniti gli ambiziosi accampanti oltre la gabbia di pietra ormai distrutta, in attesa che la fame e la sete, il terrore e l’odio, distruggessero il villaggio dall’interno.


    Nel girare la pagina, Virginia sentì una fitta, il polpastrello scottatosi nel toccare il diamante che sfregava sulla carta ruvida del libro e istintivamente si portò il dito indice alla bocca: probabilmente, nel giro di qualche ora, si sarebbe formata una bolla e già poteva sentire la superficie del dito gonfiarsi, ma al momento non le importava tanto era immersa nella lettura.

    “Siete il male incarnato, manipolatori, la sete di conquista che rompe la pace e abbatte i suoi simili… ma sono certo che la gente alle mie spalle vi perdonerà così come farò io, poiché la morte e il dolore oscurerebbero l’anima del sopravvissuto, e la guerra non avrebbe mai fine.” disse Fallon, avanzando verso gli ambiziosi, porgendo la mano in segno di pace, ma questi risero delle sue parole dolci, ordinando agli uomini maledetti di attaccare e di non lasciare in vita nessuno e il giovane capì che nulla li avrebbe fermati.
    “Vi è stata data l’occasione di redimervi e state certi che non ci sarà un’altra possibilità!” urlò, talmente forte da oscurare il cielo, finora limpido “Non vi resta nient’altro che la morte!”
    Nel momento stesso in cui Fallon pronunciò tal frase, gli ambiziosi crollarono a terra, schiacciati al suolo da una forza intangibile ma brutale, e mai più si rialzarono. Urlavano disperati mentre gli organi interni si comprimevano e il sangue usciva a fiotti da ogni orifizio; piangevano ma non c’era spazio per le lacrime e per il perdono in quel mare cremisi che gli inondava.
    Gli uomini maledetti, unici sopravvissuti, fissavano pervasi dal terrore, quel terribile spettacolo, come cuccioli sperduti, privati di tutto, paralizzati innanzi al cadavere della propria madre.
    “Voi non siete come loro, vi hanno manipolato fin dalla nascita, alimentando in voi idee maligne, ingiuste, trasformandosi in meri mezzi per la conquista.” disse Fallon, con amore e gentilezza, avvicinandosi a loro e porgendo la stessa mano, certo che stavolta lo sviluppo sarebbe stato diverso “Venite con noi e vivrete davvero.”
    Questi finalmente capirono: deposero l’ascia di guerra e s’inginocchiarono ai piedi di Fallon, per loro l’unica vera guida che desideravano seguire.
    Il ragazzo si voltò e vide uomini e donne, bambini maledetti e non, l’intera popolazione inginocchiata dinanzi a lui, grati per aver posto fine a una guerra imminente, che avrebbe distrutto l’agognata pace.
    “Esiste! Non è una mera illusione, bensì brilla nei vostri cuori e finché tramanderete alle future generazioni gli eventi che l’hanno creata, la pace durerà in eterno.” proclamò gioioso, rialzando le mani al cielo; dopodiché sparì, lasciando dietro di sé polvere di stelle.


    «In molti attesero un suo ritorno, tramandando ai posteri gli eventi così come li avevano vissuti, ma più i secoli passavano più le speranze scemarono, riducendosi al nulla; finché un giorno, dal grembo di una semplice donna nacquero due demoni unici nel loro genere, due bambini di egual aspetto, ma di sesso differente: Keeran e Kiera Maxwell erano i loro nomi.» lesse Virginia, ad alta voce, per meglio imprimere quel pezzo nella sua mente.
    Sul fondo della seconda pagina c’era un’incisione, raffigurante due neonati, entrambi stretti tra le calde braccia della madre, sotto lo sguardo fiero del padre. Quei bambini erano identici ed era impossibile distinguerne il sesso attraverso una semplice immagine; nonostante ciò Virginia scorse lo sguardo di uno di essi, lo stesso visto quando Lord Maxwell l’aveva privata dei suoi genitori e della sua vera età.
    «Ti ho trovato.» disse, lasciandosi andare in un sorriso maligno, che nulla aveva di bello.
    Virginia chiuse il libro, soddisfatta, seguito da un sonoro tonfo; ripose la penna d’oca e fissò quel che si era appuntata sul foglio: i bambini maledetti, le tre correnti di pensiero, la guerra e la pace, e “Fallon” cerchiato più volte, quasi a forare la carta impregnata d’inchiostro.
    “Possibile che sia chi penso, il Santo protettore di tutti i maghi o è solo una coincidenza?” si chiese, sbadigliando, stropicciandosi gli occhi che a stento rimanevano aperti “No, non credo più alle coincidenze, non dopo gli eventi degli ultimi mesi.”
    Con quel pensiero che le arrovellava la mente, Virginia poggiò la testa e le braccia sul tavolo e si addormentò; quando riaprì gli occhi, il canto gioioso degli uccelli fu il primo suono che udì; l’odore della legna bruciata le inondò le narici mentre gli intensi raggi del sole passavano prepotentemente dalle imposte, irradiando di luce la stanza.
    “Dannazione… mi sono addormentata.” pensò, guardando il libro poggiato sul tavolo.
    Capì subito che il potente incantesimo era tornato ad avvolgerlo perché la copertina era di un bel nero lucido, perfetta, e quando l’aprì, rivide le pagine completamente bianche, la carta che odorava di nuovo ogni volta che la sfogliava.
    “Non importa, ho abbastanza informazioni su cui indagare e quando vorrò proseguire nella lettura, userò la polvere da sparo.” si disse calma, volgendo lo sguardo al letto alla sua sinistra, dove la sera prima aveva poggiato il sacchetto di pelle assieme al corpetto.
    Si alzò dalla sedia e andò prendere gli stivali, gettati sul pavimento accanto al sacco di iuta, che aveva riversato paglia e fieno sulla dura superficie di legno.
    "A pensarci adesso, i bambini maledetti non mi sembrano così pericolosi come venivano descritti, tanto da giustificare la loro morte: manipolavano fuoco, terra e aria, cose che ora vengono insegante a un mago.” si disse, mentre l’indossava seduta sul morbido materasso di lana “Forse furono i primi al mondo a manifestare una forma di magia e la gente, temendo quelle abilità misteriose, li considerava dei demoni; comunque è Fallon quello a preoccuparmi di più e devo assolutamente trovare una conferma.”
    Virginia si avvicinò all’unica finestra della stanza e spalancò le imposte in legno, rivelando una città viva, nel pieno delle attività, uomini e donne che percorrevano la via dove si trovava la locanda; in lontananza scorse un campanile, un pilastro dalla forma tondeggiante, bianco, che svettava sulle abitazioni che lo circondavano, l’orologio che segnava le dodici in punto.
    “Ho dormito troppo” commentò, proteggendosi gli occhi con il braccio destro “È colpa di quel dannato alcolico… stenderebbe persino un drago.”
    Tornò al letto e si sistemò la camicia e la gonna, spiegazzate per la posizione scomoda in cui aveva dormito; legò il sacchetto di polvere nera con una corda e se lo mise al collo, dopodiché s’allacciò il corpetto.
    “Meglio se me lo porto dietro che non si sa mai.” pensò, mentre prendeva il libro dal tavolo, vi inseriva il foglio scritto, e lo chiudeva nel sacco di iuta.
    Uscita dalla stanza e scesa la rampa di scale che conduceva al primo piano, scricchiolante ad ogni scalino, Virginia incrociò lo sguardo di una giovane donna, gli occhi castani e i capelli mossi e scuri che le ricadevano sulle spalle, la stessa che l’aveva accolta la sera prima.
    «Buongiorno, dormito bene?» domandò la bruna, sorridendo amichevolmente.
    «Direi di sì visto l’ora che si è fatta.» rispose Virginia, replicando a quell’espressione gioiosa.
    «Già… ah, se desideri pranzare, posso chiedere a mio padre di prepararti qualcosa.»
    «Ti ringrazio ma devo rifiutare: sono di fretta.» tagliò corto lei, proseguendo per la sua strada.
    «Allora ci vediamo al tuo ritorno» rispose la donna, accompagnandola alla porta d’ingresso.
    Virginia la salutò timidamente, con un tiepido gesto della mano, e uscì dalla locanda.
    “Bene, è il momento di scoprire se il Fallon di cui parla il libro ora è il Santo tanto venerato.” pensò, incamminandosi lunga la via lastricata.

    Il tempio dedicato al Santo protettore di tutti maghi era magnifico: il colonnato porticato, i fusti scanalati e i capitelli decorati, cingeva la struttura vera e propria, tonda, a cupola; il tutto era circondando da siepi ricche di fiori d’ogni tipo e colore (Virginia riconobbe ortensie, rose e campanule) che diffondevano un piacevole aroma in tutta la zona quando il vento soffiava.
    Virginia salì i gradini che conducevano al tempio, passò tra le colonne, che a quella vicinanza sembravano ancora più grandi, e si ritrovò innanzi a un imponente albero; questi dominava nel mezzo della cella, il tronco possente, le radici racchiuse in un anello di pietra colmo di terra, e che probabilmente terminavano nelle profondità del tempio. L’albero era di un colore che dal marrone passava al grigio, fino al bianco, i rami grandi e immensi tanto da lambire il soffitto a cupola.
    «La quercia della nuova vita.» commentò Virginia, ammirando l’albero di pietra, incurante che una figura alle sue spalle la stesse osservando.
    «Nessuno la chiama più con quel nome, non dopo che la magia l’ha abbandonata.»
    Virginia si voltò di colpo e vide un uomo anziano vestito di sete e altri tessuti pregiati: bianchi e azzurri; la tunica era talmente lunga da lambire il pavimento immacolato, un mosaico di piastrelle di marmo che formavano bambini e bambine, ragazzi e ragazze, a gambe incrociate innanzi alla quercia della nuova vita.
    «Oh, ho letto quel nome su un libro. È l’albero dove Fallon ha dato mostra delle proprie doti.»
    L’anziano sacerdote la fissò attentamente, grattandosi quei pochi capelli rimastigli in testa.
    «Esatto. È un vero piacere rispondere a una ragazza che prova così tanto interesse nel Sommo Fallon» disse, sorridente, invitandola ad avvicinarsi alla gigantesca pianta «Vedi, non è solo una rappresentazione della quercia del passato, è la stessa sopravvissuta fino ad oggi.»
    «Com’è possibile?» domandò Virginia, nascondendo la grande soddisfazione crescente in lei.
    «Basandoci sulle Antiche Scritture, il primo dei maghi lanciò sul tronco un particolare incantesimo; questi permetteva all’albero di sprigionare una luce paragonabile a quella del sole, semplicemente innaffiandolo.» le spiegò l’uomo, sfiorando la superficie del tronco e mostrandole il suo palmo bianco, come se avesse toccato della cenere.
    «Poiché nessuno era in grado di replicare quell’incantesimo, e tuttora è così, con il passare dei secoli, l’albero perse quella magia rimasta dall’Ascensione del Sommo Fallon, la stessa che lo manteneva in vita, ed ora non rimane nient’altro che un cadavere di pietra.»
    “Perciò, tutto ciò che ho letto sul libro è la verità.” pensò Virginia, toccando con mano l’albero.
    «Ha parlato di Ascensione. Quindi Fallon è salito al cielo, ma per quale motivo.» domandò, pulendosi i palmi sporchi di cenere.
    «Aveva adempiuto la sua missione, dimostrando la bontà del popolo ed evitando lo scoppio di una guerra seppur avesse qualche anno in più di te.» rispose l’anziano, sollevando lo sguardo verso la cupola e le sue raffigurazioni: Virginia scorse un giovane uomo con le mani al cielo mentre le mura che lo circondavano crollavano, si dissolvevano come ghiaccio lasciato al sole.
    «C’è mai stato qualcuno come Fallon, che so’, un discendente diretto o qualcosa di simile?»
    «Che io sappia, le Antiche Scritture non parlano di una vera e propria discendenza, possiamo dire che tutti i maghi discendono da lui, perché senza il suo intervento non ce ne sarebbero stati di nuovi, ma da allora nessuno è nato con le sue capacità» rispose, abbassando lo sguardo, deluso «Infatti sono in molti ad attendere il suo ritorno, persino il sottoscritto, affinché estirpi quel male che ancora si annida nel nostro mondo.»
    “Starà parlando del Culto dell’Occhio Insanguinato?” si chiese Virginia, mordendosi il pollice della mano sinistra “Forse, ma sarà meglio non andare oltre prima che si insospettisca.”
    «Grazie signore, le sue parole mi hanno illuminato. Mio padre sarà contento di sapere a quale fede vorrò accollarmi.» esclamò Virginia, esibendosi in un inchino falso come la gonna di seta che aveva indosso.
    «Lieto di esserti stato d’aiuto, ora se non ti dispiace, avrei delle faccende da sbrigare» disse gentilmente, prima di allontanarsi, braccia dietro la schiena, e sparire oltre il tronco della quercia.
    Virginia rimase per un paio di minuti ad ammirare lo splendido albero che in quel momento pareva brillare, la luce del sole che filtrava dal foro tondeggiante della cupola, come al tempo in cui il Santo protettore di tutti i maghi camminava sulla terra.
    “Se Maxwell, che mi aveva ridotto a una bambina, ha gli stessi poteri di Fallon, una divinità che uccise aprendo semplicemente la bocca, allora sarà più dura di quanto credevo.”
     
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    Hastatus

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    Si deterse la fronte con una mano altrettanto sudata, riuscendo solo a schifarsi della vischiosità della propria pelle.
    Alcune gocce di sudore si staccarono dalle dita e intinsero il pavimento, prima di asciugarsi e diventare chiazze bianche e polverose di salnitro.
    - Guardia alta! Guardia alta, Bradamante! – la rimproverò Grazyn, le pupille verticali che tornavano rotonde e poi riprendevano a somigliare a quelle di un rettile ad ogni balzello.
    La lusertiana saltellava in continuazione e Bradamante la seguiva faticosamente con lo sguardo.
    Al secondo giorno di allenamenti, la pianta del piede le bruciava per le vesciche e le mani indolenzite si stringevano esangui al bastone di legno.
    Piegò le gambe e si mise in posizione di guardia, dondolando leggermente. Un mal di testa colossale le martellò la fronte.
    Sentiva che la fascia assicurata dietro la nuca era un po’ lenta quando le passava sotto al naso.
    Grazyn assunse la stessa posa e attese il via di Yichudim, le unghie lunghe che battevano sull’arma da allenamento.
    - Combattete! – urlò il Giudice da un angolo della stanza, l’eco di un ruggito damascano.
    Bradamante schizzò di lato e Grazyn le sfiorò il fianco sinistro, andando a impattare sulla parete in fondo: era appesa coi piedi sul muro, una mano agganciata ai mattoni; la maestra lusertiana sollevò lo sguardo verso di lei, ciocche ebano che le incorniciavano il ghigno.
    - Brava! Mi hai schivata! -
    Rimase immobile, mentre fissava le pupille mutevoli di Grazyn, con la luce della finestra che si rifletteva sul cristallino dell’occhio verde.
    C’era riuscita, giubilò senza dire niente, in cuor suo.
    Nel secondo in cui realizzò che la pupilla della lusertiana era tornata verticale, Bradamante si gettò a terra buttando le mani aperte avanti. Il bastone toccò il pavimento e la sua guancia fu premuta dall’impatto; avvertì lo spostamento d’aria del corpo snello di Grazyn in volo sulla schiena sudata, il fresco sotto la camiciola leggera.
    Bradamante si rimise immediatamente in piedi, mentre la lusertiana mirò un fendente che andò a vuoto.
    Prima che Grazyn tornasse in posizione di guardia, Bradamante colpì dal basso verso l’alto fulmineamente il bastone dell’avversaria, facendolo schizzare via. L’arma rimbalzò per terra e rotolò fino ai piedi di Yichudim, impassibile.
    Un principio di risata già affiorava alle labbra di Bradamante, quando Grazyn dette un calcio poderoso al suo di bastone. L’arma rotolò fino ai piedi di Yichudim, ancora impassibile.
    Vide il braccio della lusertiana oscurarle l’orizzonte e sentì gli artigli graffiarle la fine di un tentacolo.
    Il seno punse in risposta a quello stimolo; Bradamante cacciò uno strillo acuto e afferrò le mani squamose della maestra stritolandole; nulla sortì alla pelle coriacea e Grazyn si avviluppò alla sua schiena, mandandola distesa a terra faccia avanti. L’urto la lasciò senza fiato.
    - E ora, Bradamante… - sentì la voce di Yichudim avvicinarsi, ma non poteva vedere niente con l’arto della lusertiana piazzato sulle palpebre -…dimmi quali sono i simboli di uno scambio alchemico di base -
    Scambio alchemico di base… bene… perché non riesco a ricordarmi niente degli scambi alchemici di base?
    Grazyn picchiettò con le unghie sulla sua tempia e Bradamante si distrasse.
    Cos’era uno scambio di base? Di solito per qualsiasi tipo di scambio si usava un cerchio. A seconda della potenza e della tipologia di materiali, si cambiavano gli elementi inscritti.
    Cieca, immobile, Bradamante tirò indietro il collo e provò a parlare, ma la voce le uscì roca, raspante:
    - Cerchio…
    - Alza la voce, armaiola! – comandò Yichudim, spietato.
    Prese un lungo respiro, digrignò i denti, affondò le unghie nella carne del proprio palmo. Con le braccia così bloccate poteva sperare solo in un miracolo. Il mal di testa le conficcava spilloni ardenti nella fronte.
    Si accasciò, inerte. Quando sentì la presa del braccio squamoso allentarsi un po’ attorno alle sue tempie, Bradamante fece scattare la nuca all’indietro. Uno schiocco sonoro accompagnò l’urto della sua testa contro una sporgenza rigida. Grazyn sibilò indignata e mollò la stretta con le gambe.
    Bradamante, con le braccia libere, dette una gomitata al fianco della lusertiana, rotolò di lato e sfuggì alla gabbia squamosa: la maestra si teneva le labbra con una mano nera luccicante di liquido cremisi.
    Si girò verso di lei leccandosi via il sangue dai denti, ma sorrideva nonostante il dolore che doveva provare.
    Bradamante sentiva un’enorme energia scorrerle dentro, presumibilmente la forza della disperazione o il demone che non voleva essere toccato:
    - Si usa il fottuto cerchio per qualsiasi scambio alchemico, porca Agata! E a seconda degli elementi che vuoi evocare ci inscrivi centinaia di simboli diversi, troia la katanese impestata! -
    Yichudim sollevò le sopracciglia e poi sorrise compiaciuto. Fu inquietante:
    - Elencamene qualcuno -
    Bradamante sbuffò:
    - Che cazzo ne so? Una fiamma per il fuoco, ad esempio! O un albero con le radici in alto e la chioma in basso per la vita! -
    Guardò sprezzante prima la maestra, poi il Giudice.
    Entrambi sorridevano.
    Yichudim schioccò la lingua:
    - Tolto che il simbolo della vita difficilmente viene usato in un cerchio alchemico, visto il suo enorme valore di scambio che difficilmente si può raggiungere se non sacrificando risorse umane irrecuperab…
    - Senti, coso, ho risposto bene alla domanda e anche se con un tiro mancino ho bloccato la mia insegnante. Hai perso. Stacci! -
    Piombò il silenzio.
    Bradamante fu percorsa da un tremito incontrollabile.
    Rispondere male a un Giudice. Anzi, peggio: rispondere male a Yichudim.
    Lo fissò atterrita: aveva gli occhi cerulei fuori dalle orbite e la bocca serrata nel disappunto.
    Grazyn si era bloccata con la mano artigliata a mezz’aria, osservandola a labbra schiuse.
    Yichudim chiuse lentamente le palpebre e altrettanto lentamente le riaprì. Sorrise con gelida cortesia:
    - Grazyn, credo che per oggi abbiamo finito qui. Puoi andare -
    La lusertiana guardò dubbiosa, poi si drizzò e dopo un inchino si diresse verso la porta.
    Bradamante le tenne dietro, ma la mano di Yichudim la afferrò e la tenne saldamente ferma sul posto:
    - Oh, no. Tu invece non andrai da nessuna parte -
    Oh, no. No, no, no, no. Questo vuole ammazzarmi. Questo vuole davvero ammazzarmi.
    Grazyn si voltò e fermò. Le lanciò uno sguardo colmo di pietà.
    Ti prego, non uscire da questa stanza… supplicò mentalmente Bradamante, ma Grazyn già aveva richiuso la porta dietro di sé.
    Con le spalle curve, tremante, lei rimase a fissare stolidamente il vuoto.
    Yichudim le tese un bastone:
    - In guardia.
    - No… - pregò Bradamante, piagnucolosa.
    - Ho detto. In. Guardia – ribadì scandendo il Giudice, le iridi violacee che parevano pozze di ametista liquida bollenti.
    Controvoglia, afferrò il bastone.
    Yichudim fece tre passi dandole la schiena; poteva contargli i muscoli palpitanti delle spalle e delle braccia scoperte; il Giudice la guardò in viso, lo sguardo deciso e fisso nei suoi occhi, l’ira a stento trattenuta che si poteva misurare dalle pulsazioni della vena sulla tempia sinistra.
    - Difenditi – comandò lui, sussurrando.
    Bradamante sentì la vescica bruciare dolorosamente. Respirò con affanno, zaffate di salvia dalla benda attorno al naso.
    Yichudim caricò e le parve che le pareti tremassero. Lei si tuffò di lato e corse a perdifiato dall’altra parte della stanza, con lui che la incalzava a distanza di un passo.
    Girò col fiatone attorno al fantoccio per gli allenamenti con spada, ma Yichudim piombò su di esso col bastone e poi lo scagliò via con un calcio; Bradamante corse verso l’angolo opposto e con orrore si rese conto che la testa del fantoccio aveva un’inclinazione del tutto innaturale per essere ancora saldata al resto.
    Non si guardò più indietro e puntò la porta.
    Yichudim la superò e le sbarrò la strada. Bradamante si fermò, ma per inerzia finì quasi addosso a lui che la afferrò per il collo.
    Le mancò l’aria e i polmoni le bruciarono.
    Il mal di testa tornò più forte di prima.
    Sgranò gli occhi e rantolò temendo un cedimento della propria vescica.
    Yichudim la scaraventò a terra.
    Qualcosa fece un crack sinistro all’impatto e Bradamante pregò che in quella regione del mondo conoscessero le favolose proprietà antidolorifiche della betulla nera.
    Sgambettò mentre si rimetteva in piedi, ma Yichudim la colpì con forza inaudita al costato.
    Strillò.
    Era come se qualcuno le avesse ficcato uno spillone nello sterno.
    - Mi hai rotto una costola! Mi hai rotto una costola! – strillò ancora, con una vocetta acuta per i polmoni schiacciati dal dolore.
    Yichudim ruggì come un damascano puro:
    - Ma quale “rotto”? Quale “costola”?! -
    Con un calcio la fece rotolare e Bradamante si ritrovò a fissare il pavimento, mentre lui lanciava via il bastone e le afferrava i capelli strattonandoli indietro. Con un suo piede sulla schiena, lei sentì cento chili gravarle sul corpo e strillò ancora.
    Yichudim sovrastò i suoi lamenti:
    - Tu sei fortunata, donna! Tu sei fortunata! -
    Cosa sta dicendo, questo pazzo sadico?!
    - E neanche lo capisci! E’ questa la vera tristezza! -
    La voce del Giudice sembrò acquistare potenza vibrante man mano che proseguiva e lei veniva inchiodata col piede al suolo:
    - Tu hai il privilegio di essere trattata nella maniera più morbida possibile! Nell’esercito l’insubordinazione si pulisce con delle maledette frustate! Le reclute puliscono le latrine, lavano l’armatura ai superiori, stanno in posti malarici, sempre all’erta perché qualcuno potrebbe davvero ammazzarli! -
    Bradamante oltre al dolore riuscì a percepire la vicinanza della guancia calda di Yichudim accanto alla sua, chinato per parlare a bassa voce. In automatico, smise di strillare e pianse in maniera silenziosa.
    - Non sprecare salnitro. Non sprecare SALNITRO, DONNA! – ordinò lui.
    Si morse il labbro e cercò di non far stillare neanche una goccia.
    - Non ti azzardare a parlarmi di nuovo a quel modo, Bradamante Agazi! O farò in modo che le frustate siano una passeggiata, in confronto! Quando saprai battermi, allora potrai FORSE permetterti di considerarti mia pari! -
    Quando Yichudim ridusse la parlata a un sussurro, Bradamante fu sull’orlo del pisciarsi sotto:
    - Non rispondere più così a un tuo superiore. Ho diversi anni più di te, la maggior parte dei quali passati in attività più nobili di quelle che conducevi tu. A Kynval serve un’armaiola che vuole imparare, non una ex ladruncola con arie da liutista famosa. Quindi, credimi: se ti dimostri difficile, non è solo nella mia ira che incorrerai… -
    Credimi, la tua ira basta e avanza.
    Le mollò all’improvviso la nuca e lei sbatté col naso sul pavimento. Gemette dal dolore.
    Yichudim spostò il peso da un piede all’altro. Lo sentì parlare con aria interrogativa:
    - Sì?
    - Sono qui per parlare con Bradamante Agazi – rispose una voce femminile. Chi era entrato? – Sua eccellenza l’imperatore Kynval stesso mi ha suggerito di farlo – soggiunse a mo' di ulteriore spiegazione cui non sarebbe seguito un diniego.
    Mentre Yichudim sollevava un piede, Bradamante si rizzò in piedi e grata alla sconosciuta balzò in sua direzione come un guitto allegro:
    - Sono io! Sono io! Cosa serve? Che è successo? -
    Il balzo le provocò una scossa a metà schiena.
    Aveva la voce nasale e sperò con tutto il cuore demoniaco che non le avesse rotto il naso, quell’infame.
    La giovane che le si parò di fronte parve perplessa da quel tono espansivo e non mosse un muscolo.
    O più probabilmente era spaventata dal suo aspetto pesto, dalla benda attorno al naso, dai suoi occhi giallognoli, dai capelli ritti per il sudore cristallizzatosi in salnitro.
    Dal canto suo, Bradamante era altrettanto colpita.
    Era una donna alta, quella che aveva parlato: stava in posizione eretta, la schiena dritta, e la testa bionda la sovrastava di una buona spanna.
    Occhi verdi un po’ lattiginosi la scrutavano perplessi.
    Quando le si avvicinò, il tentacolo al seno pulsò debolmente.
    - Spero di non aver interrotto nulla, madama, ma è una questione di discreta emergenza che riguarda faccende imperiali -
    Madama? E chi sono, mia madre? O la giovane aveva ricevuto un’educazione particolarmente ferrea oppure lei dimostrava più anni di quel che aveva.
    Bradamante si permise di scrutare Yichudim per la prima volta dopo lo scontro: aveva l’aria di sufficienza tipica di chi sta venendo ignorato nonostante l’argomento possa riguardarlo da vicino:
    - Sono un Giudice Magister. E’ strano che sua eccellenza non mi abbia accennato nulla a riguardo – commentò spigoloso.
    La giovane volse il viso a lui, si inchinò in segno di rispetto e quando riemerse due chiazze rosse avevano imporporato le guance:
    - L’udienza si è svolta stamane, Vostro Onore. Qualora giudicaste sospetta la mia richiesta, sono pronta ad aspettarvi qui mentre domandate personalmente all’imperatore quale sia la verità. O se non altro ad attendere che vi siate rassicurato sulla genuinità o meno delle mie parole in qualsivoglia modo. Ma dubito fortemente che sua eccellenza sia così poco occupato da potersi permettere ulteriori contrattempi -
    Ci fu un attimo in cui piombò un silenzio assordante tra loro tre. Bradamante scalpitava pur di uscire dalla stanza, Yichudim era al confine tra il dare retta alla sconosciuta e il suonarle anche a lei, la giovane si torturava il labbro inferiore a morsi.
    Nessuna meraviglia che fosse spaventata da quell’uomo.
    Alla fine, Yichudim fece un gelido sorriso, si inchinò, mise al loro posto i bastoni da allenamento e con una lunga, eloquente occhiata a Bradamante lasciò la stanza.
    Alla sua uscita, lei sospirò di sollievo.
    Si rivolse alla sua benefattrice:
    - Sentite, spero voi non vi scandalizziate per il mio aspetto trasandato e le mie condizioni malconce… -
    Un pallido cenno di comprensione sfolgorò sulle labbra della donna, un po’ più rilassata:
    - Non è un problema insormontabile. Ho appena fatto un viaggio lunghissimo per arrivare fino a qui e non farò certo la schizzinosa proprio adesso che sono giunta a meta -
    Aveva i modi garbati di una donna ricca o di una nobile: in ogni caso di una che poteva permettersi un buon precettore.
    Bradamante rise, anche per la tensione che scemava e le rilassava le membra:
    - Allora, ditemi, straniera…
    - Mi chiamo Astrea, madama.
    - E non chiamatemi madama, per cortesia. Mi fa sentire vecchia -
    Di nuovo, le guance della donna divennero rosse:
    - Farò uno sforzo, allora.
    - Dunque, Astrea, non so da dove tu sia venuta, né perché sei qui, ma suggerisco, visto che è stato in ogni caso un “lunghissimo viaggio”, di parlarne di fronte a un infuso di betulla nera, partenio e artiglio del diavolo -
    Astrea corrucciò le sopracciglia chiare:
    - L’ultimo non suonava troppo bene… -
    Bradamante rise di gusto, il ricordo di Yichudim adirato che svaniva dietro un volto gentile:
    - Credetemi, una volta ingerito vi suonerà come cori di templi bianchi! -
    E uscirono insieme.

    Nella camera che Bradamante stessa si era scelta, spesso l’odore di cucinato penetrava impietoso. Questo perché la mensa attigua faceva promanare il profumo dell’arrosto, delle patate del Nuovo Mondo, dei pomodori che i cuochi si divertivano a spappolare dopo un lungo viaggio per mare; c’era prezzemolo, coriandolo, rosmarino, salvia come quella nel filtro nasale. Bradamante sentiva tutto anche attraverso la benda del naso, seduta allo scrittoio accanto ad Astrea.
    La giovane teneva la schiena dritta, palesemente in imbarazzo per condurre una conversazione in una stanza da letto. D’altronde parlare del culto Agazi impunemente in giardino non sarebbe stata un’idea grandiosa.
    Bradamante girò il cucchiaio di legno nella tazza di coccio; fece lo stesso con quello di Astrea e l’odore dolciastro del partenio si sollevò dall’infuso fumante.
    - Volete che faccia portare anche un po’ di pan dolce? Qua a palazzo lo fanno davvero buono e la cannella aggiunge una nota moscata all’infuso…
    - No, credo di poter fermarmi alla bevanda – rispose Astrea, dubitosa, mentre Bradamante le passava la tazza.
    - So che non è esattamente confortevole condurre una conversazione in questo modo, ma da quel che mi avete accennato sembra che meno orecchie sentano, meglio è per noi – ribatté alla guerriera.
    Astrea sorseggiò l’infuso. Corrucciò immediatamente le sopracciglia e strizzò gli occhi verdi in una smorfia di disgusto.
    Bradamante sorrise:
    - Il partenio, nonostante abbia un odore molto dolce, conferisce sapore amarognolo a tutti i preparati in cui è contenuto -
    Astrea afferrò un tovagliolo e si pulì la bocca, sempre strizzando gli occhi. Tossì e poi disse, con delicatezza:
    - Perdonatemi! Non amo i sapori forti. Forse potrei correggerlo con un po’ di miele.
    - Volete che lo ordini? -
    La bionda parve riflettere sulla proposta, poi fece un cenno negativo con la mano.
    Bradamante poggiò la tazza sullo scrittoio:
    - Va bene, Astrea. Di convenevoli ce ne sono già stati abbastanza, io direi. Perché non mi dite come mai vi servono informazioni su Sant’Agata? -
    Astrea parve oscurarsi: fissò lo sguardo sul letto dalle coperte blu, i cuscini imbottiti, i ricami di broccato. Bradamante scrutò il naso all’insù, la pelle diafana, quasi cianotica, le iridi verde chiaro e iniziò a chiedersi se non dovesse essere sempre circondata da donnone bionde avvenenti e alte.
    Helena, Angelica e ora Astrea.
    La guerriera si portò una mano al ventre e si piegò in avanti mordendosi le labbra.
    - Ciclo di luna? – chiese Bradamante.
    - Sì! – rispose Astrea, senza neanche darle il tempo di finire la frase.
    Finalmente si voltò di nuovo verso di lei:
    - Mi sono messa al servizio dell’Imperatore e lui mi ha chiesto di partire per la corte Voltur fingendomi una rifugiata Agazi.
    - Ah.
    - E ovviamente non posso arrivare là senza sapere assolutamente niente della vostra cultura -
    Bradamante realizzò che difficilmente avrebbe potuto instillare per bene tutto il culto Agazi in una ragazza che mai aveva avuto a che farci. C’era anche da considerare, però, che alla corte Voltur magari non ci sarebbero stati esperti sul culto Agazi o seguaci di Sant’Agata a scoprire buchi nella sua preparazione.
    - Quindi mi serve il vostro aiuto, Bradamante. Mi dovete insegnare tutto quel che c’è da sapere su Sant’Agata -
    Sospirò e le rispose:
    - Non è così facile, Astrea -
    Bradamante prese di nuovo la tazza e tirò un sorso di infuso. Mandò giù il liquido caldo e poi riprese a spiegare:
    - Considera che gli Agazi vengono catechizzati in anni e anni di vita e riuscire a impartire il massimo insegnamento di Sant’Agata in così poco tempo è impossibile -
    Si sentì un pizzico ipocrita, lei che aveva fatto un patto con una divinità infernale e aveva ripudiato la santa:
    - Posso darti i fondamenti, ma poi dovrai lavorarci bene sopra, memorizzarli e affinarti nel tempo. La cosa migliore che posso consigliarti è di imparare cosa fa un Agazi durante la giornata e comportarti anche durante il viaggio come se lo fossi -
    Vide la delusione negli occhi giada dell’interlocutrice, ma non smise di incalzare:
    - Dovrai pregare e pregare, ripetere la storia della santa, anche quando nessuno ti guarda. Convincerti di quel che hai studiato, interiorizzarlo -
    La guerriera fece una smorfia di dolore, tenendosi l’addome. Si ricompose e poi la scrutò con attenzione:
    - In pratica non dovrò fingere, ma essere direttamente una Agazi -
    Bradamante sollevò le spalle:
    - E’ l’unica possibilità che hai per immedesimarti a sufficienza -
    Astrea si morse ancora le labbra. Una gocciolina di sudore le percorse la tempia.
    - Va bene.
    - Va bene, Astrea?
    - Sì. Sono pronta allo sforzo -
    Bradamante accavallò le gambe e si sistemò i capelli.
    - Il primo fondamento che un Agazi deve imparare è quello della libertà -
    Astrea si appoggiò con un gomito allo scrittoio e la fissò con attenzione.
    - E questa è la cosa più imprescindibile di un Agazi. E’ la base del suo credo. La sua stessa vita. Mai togliere la libertà ad un Agazi o troverà il modo di riprendersela e farla pagare a chi gliel’ha tolta -
    Il seno le pulsò debolmente, tanto per ricordarle che quelle erano vuote parole; ma da qualche parte, dentro di lei, un battito d’ali frullò piume candide e dei capelli rossi si agitarono.
    - La libertà di fare cosa? Perché mi sembra che nella legge archadiana sia garantita la libertà individuale -
    Bradamante puntò lo sguardo alla finestra: i giardini esterni si estendevano, verdi, rigogliosi, bellissimi. Uno stormo di passeri si sollevò da un cipresso.
    - Per noi la libertà è un assoluto, come la vita, come la morte. Del resto non si può essere moderatamente liberi così come non si può essere moderatamente morti -
    Astrea non parve convinta. Bradamante cercò di essere più precisa:
    - La libertà per noi non è neanche quella che ci concede un sovrano. Non è quella che ci concede qualcuno. Noi crediamo nell’assenza di governo. Possiamo fare riferimento a una figura centrale, ma nessuno ci comanda di fare niente, cosa prendere, cosa non prendere. L’unica che può dirci cosa facciamo e cosa non facciamo è Sant’Agata -
    Astrea la guardò come se fosse pazza:
    - E… come sapete che cosa vuole Sant’Agata? -
    Bradamante sorrise: effettivamente potevano passare per pazzi visionari se non sottolineava che c’era un intermediario tra la volontà della santa e loro.
    - Il Padre Agazi ci informa della volontà della santa. Ci dice quali sono i suoi desideri, dove abbiamo peccato. Lui è l’unica figura di riferimento nel culto.
    - E il Padre come lo sa?
    - Lo sa e basta – rispose risoluta Bradamante.
    Astrea aveva la faccia di chi ha migliaia di obiezioni sulle labbra ma è troppo educato per poter rispondere come vorrebbe.
    - Comprendi il culto: è tutto perfettamente irrazionale!
    - Noto… - ribatté diplomatica la guerriera.
    Ci fu silenzio. Poteva sentire ticchettare tutte le domande nella mente dell’interlocutrice.
    - Quindi l’unica autorità è Sant’Agata, che parla attraverso il Padre. Per il resto non esiste tutore dell’ordine? Non si crede in nessun governo? Siete anarchici? – chiese Astrea.
    - Fondamentalmente sì – ribatté Bradamante – Il desiderio di Sant’Agata è più o meno sempre lo stesso: il metallo.
    - Il metallo? -
    Annuì.
    - Sant’Agata è stata una guerriera in vita. E in quanto tale, ha bramato il ferro per le proprie armi, l’acciaio temprato per la propria corazza, l’oro per comprare il suo esercito -
    Gli occhi giada di Astrea scintillarono a quell’ultima frase.
    - Il bronzo, il rame, l’argento. Sant’Agata brama tutto questo e noi glielo diamo. Per questo noi rubiamo. Di quel che rubiamo una minima parte va a finire nelle nostre tasche ed è solo per sopravvivere. Pochissimi Agazi sono integrati nell’impero, ancora meno sono gli Agazi che fanno i mercanti. Di solito, solamente nel sottoregno di Katane sopravvivono bene questi cultori ricchi, raffinati.
    - Come possono coniugare le due cose? -
    Bradamante sospirò:
    - E’ una delle più grandi contraddizioni Agazi. Finché è volontà di Sant’Agata, si può tutto.
    - Ma questo significa anche uccidere, rubare, violentare? Questo dà il permesso di prevaricare la libertà altrui? -
    Bradamante usò le mani per far cenno ad Astrea di abbassare la voce:
    - In realtà no. Per volontà di Agata, ci sono dei divieti imprescindibili a cui un Agazi deve obbedire -
    La guerriera di fronte a lei ridusse gli occhi a due fessure.
    - Non uccidere se non per legittima difesa. Non violentare. Non toccare i bambini, bocche d’oro attraverso cui Sant’Agata stessa parla. Non profanare luoghi sacri di altri culti.
    - Ma ho sentito di Agazi che hanno rubato anche nei templi della Dea – protestò debolmente la giovane.
    - Menzogne! – ribatté fulminea Bradamante – Menzogne ben congegnate per creare l’odio verso di noi! Voci del popolo! Pettegolezzi! -
    Astrea sollevò i palmi delle mani:
    - Perdonatemi, non volevo insinuare nulla. Solo che capite bene come la mia mente stia subendo dei forti urti al cercare di capire determinate cose -
    Bradamante si sistemò sulla sedia; una fitta alla schiena le fece fare un mugugno, nel punto in cui Yichudim si era appoggiato col piede. Afferrò la tazza di infuso antidolorifico e trangugiò una lunga sorsata.
    - Ho idea che sarà ancora più difficile di quanto avessi già prefigurato… - commentò amareggiata Bradamante, passandosi una mano sul viso.
    Sentì il tocco delle dita di Astrea sulla spalla; i tentacoli sul seno si arroventarono e lei scattò eretta.
    Astrea ritrasse la mano, spaventata.
    Con gli occhi sgranati, la guerriera le disse:
    - Io cercherò in tutti i modi di togliermi dalla testa i pregiudizi che ho. Ma ho bisogno di tempo per digerire quel che mi hai detto già, che non è poco per una che difficilmente si avvicina alla religione. Per questo ho una proposta per te… -
    Bradamante si mise in piedi e raccolse le tazze di legno:
    - Che proposta? -
    Astrea rimase seduta, il volto dal naso affilato e il mento appuntito ben profilato nella penombra e i capelli biondi che prendevano gli ultimi raggi di sole smorti dalla finestra. Gli occhi riflettevano i colori di un prato a maggese e la luce dell’ostinazione rendeva le sopracciglia arcuate:
    - Sarò tua allieva. Mi insegnerai ancora, oltre oggi. Fin quando non imparerò a cavarmela da sola. Non parlo di un rodaggio di mesi, solo di pochi, intensi giorni. Ci incontreremo ogni volta nel pomeriggio, alla nona ora, di fronte la stanza degli allenamenti -
    La risolutezza del suo tono la colpì, proprio quando aveva pensato che fosse la donna più timida del mondo.
    Bradamante, con le tazze in mano, i capelli sparati in aria, le vesciche che le ustionavano le piante dei piedi e la faccia fasciata, la scrutò come se stesse osservando una bestia inusitata del Nuovo Mondo.
    - Affare fatto – le rispose.
    Qualcuno dalla mensa proclamò pronta la cena.
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  9. Toshiro Umezawa
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    Una cappa di nubi scure e minacciose si ergeva in alto, in alto, nel cielo sopra la capitale.
    La città sembrava sul punto di ricevere un bell'acquazzone sul capo, ma, imperterriti, i suoi abitanti seguitavano nella loro faccende, almeno da ciò che la ragazza poteva osservare.
    Erano circa dieci minuti che aspettava la fine della lezione di Bradamante, ma i colpi e le sonore imprecazioni seguitavano a farsi sentire, così, tanto per passare il tempo, aveva deciso di dare un'occhiata al panorama che si godeva da un balcone poco distante dall'ingresso delle stanze della Agazi.
    Un colpo sordo penetrò le mura e si diffuse nell'aria circostante, seguito da un silenzio molto più assordante di mille parole: fu quello a distogliere Astrea dalla sua osservazione.
    Si avvicinò pian piano alle porte che conducevano alla sala d'allenamento del giudice e di Bradamante, in modo da non dare nell'occhio.
    “Sarebbe scortese interromperli come ho fatto ieri, e preferisco non irritare quel tipo così poco simpatico.
    Uff, com'è che ha detto? Che gli Agazi ritengono fondamentale il concetto di libertà, intesa come, come...ah sì” pensò mentre si batteva il palmo della mano sulla fronte “come un'indipendenza assoluta da ogni forma di governo, eccettuato il volere supremo di Sant'Agata.
    Non male, per una che si addormentava spesso durante le sue lezioni di teologia”.
    Astrea continuò a rimembrare ciò che ricordava del suo primo incontro con la donna, e si accorse che, bene o male, era riuscita a tenere a mente tutto, o quasi.
    “A dire il vero, mi chiedo ancora che senso abbia una religione che abbia così tanti tramiti in terra tra gli accoliti e la “dea” suprema: d'accordo, si dice che i bimbi siano la bocca della verità, ma, dacché mi ricordo io, ne sparano anche di grosse...io stessa ho detto delle bugie, qualche volta.
    Ma in fondo, chi sono io per criticare una fede? Meglio che scacci questi futili pensieri dal mio cervello, o non potrò apprendere con chiarezza i prossimi dogmi.”
    I colpi, scemati per qualche secondo, ripresero a farsi sentire ancor più forti di prima: da quel che ne capiva la ragazza, quel tipo di scherma era un po' diverso da quello che aveva appreso al castello dove era rimasta per sedici anni.
    Il suo stile, di stampo classico, prevedeva stoccate e ampi movimenti, supportati da agilità e movenze molto veloci frutto di allenamenti quotidiani ed impegnativi.
    Così era stato per tutti i sovrani del nostro regno, anche prima della firma dell'alleanza con Archades..e lo sarà anche per te.
    Le parole che suo padre le aveva rivolto durante la sua prima sessione di scherma, una rovinosa lezione terminata con parecchie sbucciature e un labbro spaccato, risuonavano ancor nelle sue orecchie.
    Se avesse potuto osservarsi da qualche mese prima, non avrebbe pensato di essere lei la giovane vestita con un farsetto di cuoio, pantaloni di lino e stivali alti di pelle dura.
    “L'armatura mi avrebbe impacciato e basta...in fondo, non sono lezioni di combattimento...e anche se fosse, ho la mia lama d'argento qui.”
    Dicendo questo, batté con la mano il fodero ove la spada riposava.
    Quella era l'arma che tutti i re e le regine suoi antenati avevano brandito, tempo addietro, e che era stata tramandata di generazione in generazione nella famiglia Heinrich, la casata di suo padre Artosius.
    “O meglio, dovrei dire “tutti gli avi del mio papà”, visto che io non sono proprio...”
    Serrò forte la presa sull'elsa della spada, e avrebbe continuato, se non fosse stato per il ruggito iracondo che eruppe dalla stanza lì vicino.
    -Alza la guardia! Dannazione, Bradamante, come ti è potuto venire in mente di provare un montante, quando la tua avversaria si era chiaramente posizionata in guardia bassa?!-
    Seguì un breve lasso di tempo, dove furono pronunciate parole che Astrea non udì, subito spazzato via dall'urlo del Giudice, quello con lo sguardo glaciale.
    Si fece forza e bussò lievemente sulla porta.
    Non accadde nulla.
    Poi la voce dell'ufficiale proruppe da oltre i battenti della sala d'allenamento.
    -Ah! Sembra che sia arrivata la tua ospite, Bradamante. Riprenderemo domani. Grazyn, sei congedata.-
    Subito dopo, la porta venne aperta e ne uscirono il Giudice e una donna dagli occhi a forma di fessure, come un rettile: quest'ultima, sembrava lievemente stanca, ma la salutò con un inchino della testa.
    Astrea le augurò una buona giornata nel medesimo modo.
    “Visto che gli “allenatori” di Bradamante sono usciti, direi di poter procedere. Speriamo solo che non sia tanto spossata da non riuscire ad impartirmi la lezione.”
    Entrando nella sala, notò che la donna si era seduta pesantemente su una delle sedie presenti nella camera in cui avevano parlato il giorno precedente: da quel che vedeva la giovane, la sua maestra era completamente distrutta.
    Ansimava velocemente, il petto che si sollevava sotto la camicetta bagnata di sudore ritmicamente, i lunghi capelli castani impastati di stanchezza, le mani tenute inermi lungo i fianchi.
    “Direi che sia meglio darle una decina di minuti di riposo, poveretta. In fondo, non mi ha notata ancora: mettiamoci buoni qua e aspettiamo.”
    E così fece, sedendosi sulla sedia più vicina, mentre la Agazi cominciava a recuperare parzialmente le forze, il respiro si faceva sempre più regolare e quieto, le mani si tergevano la patina lucente dal volto.
    Quando si fu sistemata, si accorse della presenza di Astrea e le sorrise.
    La ragazza le fece un lieve inchino con la testa, rivolgendole a sua volta un sorriso: non voleva forzarla ad alzarsi dopo uno sforzo fisico prolungato, ma non poteva perdere ulteriormente minuti preziosi.
    -Salve, Bradamante. Quando lo desideri, vorrei riprendere la nostra lezione di ieri...sempre che tu non sia troppo stanca, certo.-
    “E' triste, ma non posso essere troppo accomodante: il mio tempo stringe.”
    Come in risposta a quei pensieri, una fitta di dolore acuto le trapassò l'addome, facendola sobbalzare per la sorpresa: smorfie di confusione volevano salire sul suo volto, ma Astrea riuscì a dominare il male che la attanagliava, fino a che non scomparve.
    “E'...è strano...non mi hai mai fatto così male il ciclo....Vabbè, ci penserò dopo.”
    Bradamante dovette aver notato i suoi movimenti, ma se ne fu preoccupata, non lo diede a vedere: dopo qualche altro minuto, fece segno alla giovane di alzarsi e di seguirla nella stanzetta in cui avevano parlato il giorno precedente.
    Sedendosi, la Agazi chiese alla sua allieva se gradisse qualcosa da bere.
    -A dire il vero sì, se te n'è avanzato: prendo volentieri un bicchiere di latte.-
    All'occhiata sorpresa di Bradamante, Astrea rispose, un po' imbarazzata:
    -Sai, mi piace molto...lo beve spesso durante una conversazione, se posso.-
    -Certo.- disse la castana, dopo un attimo di esitazione.-E' lì, sul tavolo.-
    Dopo che Astrea se ne fu presa un bicchiere, iniziò a sorseggiarlo lentamente, gustandoselo: se proprio doveva abbracciare una nuova religione, almeno voleva farlo con quanta più calma possibile.
    -Bene. Ieri eravamo rimaste ad un introduzione, ad una prima veduta generale di ciò che è il culto di Sant'Agata: oggi ti narrerò della figura storica della santa, le sue vicissitudini come martire guerriera calate nel mito e nella leggenda, senza tralasciare gli aspetti legati alla Storia.
    Credi di poter ricordare tutto a memoria?-
    -Oh sì, non sembra, ma per i particolari storiografici sono dotata di un buon cervello...ma attenta a non sottopormi quesiti numerici.-ridacchiò la ragazza.
    -Uhm...dunque, da dove iniziare?-
    Bradamante accavallò le gambe, assumendo un piglio che, agli occhi di Astrea, sembrava quello di una condottiera, più che di una maestra-ladra...forse anche perché aveva preso in mano una corta bacchetta di legno e se la batteva lievemente sul palmo della mano, scandendo un tempo noto solo a lei.
    -Direi dalle prime informazioni che abbiamo su Agata.
    Nacque in un villaggio ai piedi delle Montagne di ferro: era una ragazza come altre e proveniva da una famiglia nobile e ricca.-
    “Come tutti i santi in generale.” pensò con sarcasmo Astrea.
    -Di lei non si sa nulla di rilevante fino al compimento della maggiore età, quando decise di abbandonare l'esistenza lussuosa in cui era vissuta fino a quel momento per consacrarsi alla cura degli altri: secondo molti Agazi, la sua decisione fu dovuta allo shock della perdita dell'amato con cui avrebbe dovuto sposarsi, secondo i meno invece fu il suo incontro con il mondo della povertà che la spinse a tale rinuncia.-
    Mentre Bradamante continuava con il suo racconto, Astrea non poté fare a meno di riflettere su quanto stava accadendo.
    “Curioso: io, che fino ai diciassette anni sono vissuta nella bambagia, sono simile alla santa, qui: anch'io, dopo anni di tranquillità, ho preso una strada che ha cambiato per sempre la mia vita...che fatto stran-
    -Ehi! Chi ti ha dato il permesso di distrarti?!-
    Una voce secca ed autoritaria le raggiunse le orecchie, proprio mentre qualcosa di duro calava con forza sul dorso delle sue mani e le faceva vedere le stelle.
    -Ma che cavolo...? Ma, insomma, è così che usi le bacchette tu?- le chiese la giovane, massaggiandosi il punto in cui la verga era piombata.
    -Quando ci vuole ci vuole: non siamo qui per divertirci, Astrea. Riprendiamo, forza.-
    La ragazza si rimise sull'attenti, anche se non approvava quei metodi educativi.
    “Meglio che stia attenta d'ora in poi: non sono a scuola, dopotutto.”
    -In seguito alla sua entrata nel mondo religioso, la santa si impegnò nei suoi incarichi, come istruire i giovani e per questo i bambini sono considerati la sua Manifestazione in terra, non solo sulla cultura, ma anche sul credo che si stava creando attorno alla sua figura.-
    Qui Bradamante osservò alcuni secondi di silenzio, duranti i quali Astrea mandò a memoria i passi più importanti della lezione.
    “Dunque...nata in una famiglia ricca e nobile....entrata nel mondo dei più bisognosi all'età di diciotto anni..istruzione dei più piccoli sui dogmi futuri...bene o male c'è tutto.”
    -Quando furono passati non meno dei quattro anni da che Agata prese i voti presso la chiesa del paese vicino, il duca Serapione di Megaras, emissario del regno di Cogadh, si recò in visita nel villaggio in cui la santa viveva separata dalla sua famiglia d'origine.
    Il potentato era interessato ad estendere la sua influenza anche in quelle regioni del Nord, dato che l'Impero ancora non esisteva ai tempi, essendo piuttosto un territorio composto da vari ducati e contee separati.
    Serapione, venuto in quella regione per imporre l'adozione di culti del Sud, si invaghì di Agata.
    In mille modi tentò di sedurla e farle cambiare idea sui suoi veri doveri, ma lei rifiutò ogni approccio.-
    Bradamante si fermò per alcuni momenti per permettere ad Astrea di fissare in memoria le ultime nozioni, poi riprese, con ancor più ardore di prima.
    “Vederla narrare con così tanta passione, da un lato è buffo e dall'altro le dà un tono solenne, rispettoso.” osservò la ragazza.
    -Alla fine, resosi conto che non avrebbe avuto nessun successo con la donna che amava, l'adorazione di Serapione mutò in rabbia e decise di ucciderla: alcuni pensano, materialisticamente, per impossessarsi del cospicuo patrimonio che aveva ereditato e che utilizzava per le opere di carità, ma, in realtà, fu per un odio cieco alla ragione.
    Con accuse false e grazie a delatori e compiacenti, Serapione riuscì ad imprigionare sant'Agata: accusata di pratiche disumane, omicidi che non aveva mai commesso nel regno di Cogadh ed incesti, stava per essere condotta al rogo, ma un manipolo di suoi ferventi sostenitori, che non a caso avrebbero originato i primi Agazi conosciuti dalla Storia, la liberò e la ricondusse al paese natio.-
    “Allora...Serapione...amore che si trasforma in odio...accuse false...liberazione.”
    Astrea mandò rapidamente alla mente quei particolari: nonostante non fosse una credente, doveva ammettere che quel racconto le piaceva e non poco.
    -Tuttavia Agata era consapevole che il duca sarebbe tornato con molti soldati per reclamare la sua vendetta, e così cercò protezione nel vicino regno di Katane, dove in molti avevano sentito parlare della sua dottrina e ne erano rimasti colpiti.
    Agata, però, mia cara Astrea, non stette con le mani in mano: dimostrando spirito intraprendente e una mente affilata come una spada, si adoperò per imparare le arti della guerra, e, quando Serapione, accompagnato da una scorta di guerrieri, giunse alle porte del suo villaggio, non trovò nessuno: né animali, né uomini, donne o bambini.
    Né Agata.
    Il conte si informò nei villaggi vicini sulla sorte della donna che un tempo aveva desiderato possedere e quando si mosse verso Katane, si ritrovò un muro di lance, spade, archi e scudi a presidiare le mura della città.-
    A quel punto Bradamante prese un tono che, alle orecchie di Astrea, suonava come posseduto da un'euforia, un turbine di passione che ne avvolgeva il discorso e le conferiva un'aura ispirata e, possibile?
    Minacciosa.
    “Uhm...certo che io i maestri me li scelgo bene.”
    -Serapione era basito, e giustamente.
    Perché in cima al torrione più vicino, si ergeva, fiera e combattiva, la figura di Agata: armata e rivestita di corazza, era pronta a sfidare il potere del suo nemico, pur di difendere la sua congregazione.
    Il conte se ne tornò dal suo padrone, con la promessa di ritornare e di mettere a ferro e fuoco l'intero paese, non prima di avere martoriato il corpo di Agata.
    E sai come rispose lei?-
    La ragazza non registrò subito la domanda, perché impegnata a trattenere i punti salienti della lezione: quando si accorse che Bradamante la fissava con uno strano luccichio negli occhi, la sua unica risposta fu un vago:
    -Eh?-
    -Dagli spalti, emise una lunga risata, che terrorizzò i soldati del seguito di Serapione, o almeno così si dice: pare che non fosse il riso di una creatura umana, e divenne noto come uno degli episodi più conosciuti e amati riguardo alla Santa.
    Un urlo lanciato in faccia al nemico, una provocazione risoluta e priva di compassione.
    Ah!
    Che scena magnifica: tutto quel metallo che luccica al sole, le alte mura di pietra con gli stendardi a garrire al vento e quella donna a presiedere i suoi compagni, ululando il suo disprezzo a chi le voleva togliere ogni dignità!-
    “Ecco, ora è lanciata.”
    Astrea sorseggiò un po' del latte avanzato e, con rispetto, le chiese cosa fosse successo dopo quell'insulto a Serapione.
    -Cosa successe? Bé, si scateno la guerra.
    Il re di Cogadh, deciso a sedare quello che avrebbe potuto sfociare in un'avanzata di conquista da Katane al suo regno, ordinò il raduno del suo esercito, che, in capo a quattro mesi, fu in pieno assetto.
    Ora, i resoconti della battaglia sono molto incerti, perché furono travisati e coronati da numerose leggende nel corso del tempo, ma quel che è certo è che la truppe katanesi resistettero per due settimane agli assalti ininterrotti del conte e dei suoi armigeri.-
    Astrea si sentì elettrizzata: in poco tempo, si era lasciata assorbire da quella lezione di Storia teologica, e ora poteva figurarsi il fuoco del campo di battaglia, il selvaggio clangore provocato dalle armi che cozzavano, il sibilo delle frecce sopra le teste dei nemici e il grido di battaglia della santa emergere sopra tutto quel clamore infernale.
    -Agata, alla guida dei suoi fedeli, respingeva qualsiasi aggressore: si dice che mulinasse i colpi della sua spada con tale furia da sembrare immobile...ma questo è solo un aneddoto sorto su quell'episodio così grandioso.
    Purtroppo, alla fine-qui il tono di Bradamante si fece cupo e triste- le truppe di Serapione ebbero il sopravvento e riuscirono a sfondare le difese di Katane.
    In quel preciso istante, un suono di campane sorse dalle strade cittadine: dapprima solo una chiesa suonava, poi un'altra, e un'altra ancora: in breve tempo, un intero concerto di campane echeggiava nell'aria, a dare l'ultimo gagliardo sprono ad Agata ed ai suoi fedeli.
    Poco prima della disfatta finale, la santa ordinò a tutti i suoi commilitoni di fuggire da lì e di seguire i suoi insegnamenti, in particolare quello di essere sempre liberi da ogni volontà esterna alla propria o a quella di Agata, in luoghi lontani dall'influenza di Cogadh: in molti seguirono il suo volere, ma altri resistettero attorno a lei, finché il conte non giunse a dare il colpo di grazia ai ribelli, mentre la città veniva bruciata.
    Agata fu sottoposta torture infinite, martoriata nel corpo, tagliuzzata e marchiata come non umana, ma lei non abiurò mai, l'animo fiero anche nella sofferenza.
    Esalò il suo ultimo respiro proprio mentre l'ultimo eco delle campane si spegneva: i racconti dicono che nel naso, come riferirono alcuni testimoni delle torture, avesse detto di avere l'odore del metallo.-
    Bradamante terminò il suo racconto, sedendosi sulla sedia e recuperando le forze: anche se aveva osservato delle pause, la sua narrazione era durata per circa un'ora ininterrotta e questo servì ad Astrea per recuperare tutti gli elementi sulla vita di Agata.
    “La pensavo molto più miracolosa la sua esistenza: capisco perché sia così rispettata dai suoi fedeli, al punto da considerare perfino i bambini come espressione della sua voce.”
    La Agazi attese che la ragazza finisse di memorizzare il tutto, per poi passare all'ultima parte della lezione.
    -E quindi, forse ora comprendi le ragioni per cui i simboli degli Agazi sono le chiavi, la smodata passione per i metalli e il sentimento di libertà che non può essere limitato da nessuna autorità.-
    Quando ebbe pronunciato quelle parole, ad Astrea pareva che un'ombra fosse calata sul viso della sua maestra, e si chiese perché avesse avuto quella reazione.
    Fu solo un attimo: quella nuvola oscura passò oltre e Bradamante riprese la sua spiegazione con un piglio più pratico e meno ispirato.
    -Agata rifiutò sempre le offerte dei suoi spasimanti...oh, sì, ne ebbe più di uno- replicò alla faccia sorpresa di Astrea- fidati, e lei non accettò mai: ecco perché tutti gli Agazi rifuggono le autorità che non siano quelle della Santa.
    Ma c'è di più.
    Le chiavi stesse, tatuate sulla nostra pelle, rappresentano la metafora del raggiungimento di quella totale indipendenza che ogni Agazi deve cercare di ottenere.-
    Così dicendo, Bradamante scoprì la parte di pelle dove aveva inciso l'emblema degli Agazi e mostrò alla ragazza il simbolo del suo credo e della sua vita.
    -Solo di una cosa Agata ebbe una smodata passione...ossia i metalli.-
    -Già, spiegami un po' questa storia dell'amore per i metalli...non riesco a comprenderla per nulla.-
    Astrea aveva usato un tono neutrale, ma qualche traccia del suo scetticismo dovette trasparire, perché di nuovo qualcosa di infiammò nell'animo di Bradamante.
    -Come una sposa brama il profumo dei fiori d'arancio, lei è stata la sposa della guerra e ha bramato l'odore del ferro, del piombo, dell'acciaio e dell'oro e dell'argento per pagarseli!
    Puoi immaginare amore più puro di quello?
    Una passione che non richiede compromessi, una relazione che lega ad alcune delle più belle creature del mondo, sebbene non siano vive: ma proprio in questo sta la magica attrazione che noi Agazi abbiamo per ogni tipo di metallo, in particolare per quelli più nobili.-
    Astrea, a quel punto, alzò le mani: comunque lo mettesse Bradamante, lei non riusciva a comprendere questo tipo di amore, che le appariva futile e freddo.
    “Ma in fondo, paese che vai, usanze che trovi...meglio che 'ste impressioni me le tenga per me...non è compito mio discutere di questioni teologiche.
    Però proprio non capisco!”
    -Tutti gli Agazi, fin da piccoli devono saper riconoscere i vari tipi di metallo- riprese la ladra- e, per assecondare i suoi desideri, devono dotarsi degli strumenti per renderla felice: ecco perché ogni Agazi deve sapersela cavare con coltelli e daghe, e deve avere una smodata passione per le sostanze metalliche...ma forse mi sono dilungata troppo, e in effetti credo di aver bisogno di un po' di riposo.
    Se per te va bene, ci potremmo rincontrare domani, stessa ora, in questa stanzetta.
    Che ne dici?-
    -Va bene.-
    Astrea si incamminò verso la porta: quando stava per uscire, si fermò sulla soglia, e si voltò verso Bradamante, stravaccata sulla sedia, sfinita e in palese debito di ossigeno.
    -Ti ringrazio molto, Bradamante, per quello che fai. Davvero.-
    -Bah! Non lo faccio certo per carità. Ma sarà meglio che tu mi sappia snocciolare ciò che ti ho detto oggi, se non vuoi che mi metta a fare sul serio con la verga. Ok?-
    -D'accordo. E grazie ancora.-
    -E per che cosa?-
    -Per il latte, ovvio.
    Con la massima cura, la giovane chiuse la porta alle sue spalle e si incamminò verso gli arboreti di Archades: certo, era stato generoso il sovrano a concederle una stanza nella sua casa, ma se doveva essere sincera, preferiva il verde delle piante al bianco delle mura.
    “E poi, mi piacerebbe vedere un po' della città. Dal colloquio, non sono ancora uscita dal palazzo.”
    Non se ne accorse subito.
    Stava camminando allegra per la stradina lastricata che conduceva ai giardini della capitale, su una via priva di guardie o cittadini, godendosi il tepore del sole, sbucato fuori dalla coltre di nubi, che si erano spostate lontane, a nord.
    Fu solo dopo alcuni secondi che realizzò di avere a poca distanza, dietro di lei, una presenza che la seguiva: subito pensò a qualche malintenzionato o a Bradamante, ma quando si voltò, vide che era solo una ragazzina di quindici anni, dai lunghi capelli neri e con in mano un libro.
    -Chi non muore si rivede, eh?- le fece quella con un ghigno.
    -Vi-Virginia? Sei tu?-
    -E chi altri dovrei essere? E' da un pezzo che non ci vedevamo? Direi, da una certa faccenda con un pugno.-
    Virginia le si avvicinò con passo spedito: nonostante fosse più bassa di lei di qualche centimetro, Astrea percepì tutta la sua determinazione venirle addosso e si preparò al colpo.
    Chiuse gli occhi.
    “Eh?!”
    Invece di sferrarle un pugno nell'addome, come si era aspettata, Virginia l'aveva abbracciata.
    Se voleva lasciarla di stucco, si disse Astrea, c'era riuscita in pieno.
    La ragazzina l'aveva circondata con un abbraccio caldo e pieno di gioia e per di più molto forte, almeno per una della sua età.
    Lievemente imbarazzata e confusa, Astrea non seppe far altro che starsene lì, imbambolata: sentiva che se avesse fatto qualunque cosa, allora le conseguenze non avrebbe potuto prevederle nessuno.
    Pian piano, appoggiò la sua mano sulla testina di Virginia e incominciò ad accarezzarle i capelli, facendoseli passare tra le dita come fiumi di inchiostro: non sapeva se la ragazzina l'avesse apprezzato, ma forse questo l'avrebbe calmata.
    -Credevi...credevi che non me ne importasse nulla? P-pensavi che io n-non fossi preoccupata per te?-
    La voce soffocata della piccola la colpì ben più forte che un suo eventuale pugno: questo non se l'era davvero aspettato.
    Però lo apprezzava molto.
    “Forse questa è la prova che il mio viaggio non deve terminare in quel modo...forse posso essere di conforto a qualcuno.
    Certo che però ha una forza straordinaria.”
    Virginia ora taceva, ma furono necessari alcuni minuti, durante i quali Astrea seguitò ad accarezzarle il capo, perché infine Virginia si staccasse delicatamente, con dolcezza quasi restia.
    Seguì un silenzio strano, per Astrea: non si era mai trovata così con Virginia, nemmeno durante i loro giorni di viaggio assieme.
    Fu la ragazzina a rompere gli indugi, asciugandosi gli occhioni lucidi.
    -Ho visto un bel fermaglio per capelli in una bancarella, fatto con piume di pavone e perline: sono certa che quello mi farà dimenticare il livido che ho ancora sulla bocca dello stomaco.-
    Astrea sorrise alle parole di Virginia, e annuì.
    -Ma certo. Dimmi solo dov'è e te lo porterò.-
    -Bé, io...io preferirei che ci venissi con me.-
    Astrea era stupefatta: Virginia ora non sembrava proprio la scaltra ragazzina che aveva conosciuto, ma una giovane normale, commossa per rivederla sana e salva, che si puntava sui piedi e li strusciava a terra, con chiazze rosse sulle guance e un tono dolce.
    -Allora, va bene.-
    E, presa la sua manina nella sua, si lasciò condurre verso il negozietto, con la ragazzina che cantava allegramente un motivetto.

    Edited by Toshiro Umezawa - 5/3/2016, 18:24
     
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    « Da questa parte, figlio mio. »
    Un uomo alto, con corti e folti capelli neri dalla profonda stempiatura, posò la mano sulla maniglia arrugginita di un grosso portone di legno coperto di muffa e muschio.
    L’uomo sollevò l'arto mancino.
    La lunga manica della sua tunica color della notte svolazzò seguendo il movimento del braccio.
    Una piccola palla di fuoco fluttuava sopra al suo palmo, irradiando una forte luce arancione che illuminava le pareti umide e piene di crepe del corridoio da cui erano giunti.
    « Sì, Padre » rispose lui, lanciandosi una fugace occhiata alle spalle.
    Non c’erano finestre.
    Il cunicolo, dal tetto a volta sorretto da file di colonne brune, era talmente lungo che la luce emanata dalla sfera di fuoco del padre non riusciva ad illuminarlo totalmente, pur essendo quasi accecante.
    C’era odore di chiuso, di umido, di muschio.
    Un forte odore di zolfo si univa a quelle fragranze, ma poteva distinguerlo chiaramente.
    Lo inebriava.
    Odore di fuoco.
    Odore di fiamme.
    Avvertiva la presenza di vita, oltre alla sua e a quella del Padre.
    Sentiva come se il pavimento sotto i suoi piedi ribollisse, talmente ne era saturo.
    Il Padre spinse la maniglia.
    Il portone si aprì lentamente.
    Nugoli di polvere piovvero dalla cima dell’uscio, impattando contro lo sconnesso pavimento di pietra e sollevando una inquietante nebbiolina spettrale.
    Il rumore del metallo arrugginito che strisciava contro altro metallo gli trapanò i timpani.
    Per qualche secondo temette che il portone crollasse su se stesso.
    Si strinse nella camicia bianca, sopprimendo un tremolio.
    Pur avvertendo con chiarezza la potenza della Fiamma crepitante sotto i suoi piedi quel posto era freddo.
    « Che cosa volevate mostrarmi, Padre? » domandò, voltando la testa verso il mago.
    L'uomo puntò l'iride nera del suo occhio destro dritta nelle sue.
    Una lunga cicatrice solcava la carnagione olivastra del volto del Padre, partendo dalla fronte e scendendo fino al mento passando sull'occhio sinistro, coperto da una benda nera.
    « Che cosa avvertono i tuoi sensi, figliolo? »
    Non gli piaceva esser chiamato in quel modo.
    Trattenne un moto di stizza e sospirò.
    « Vita » rispose. « Una fonte enorme di energia vitale. Più di una in realtà. E Fiamme. »
    Il Padre sorrise compiaciuto.
    « La tua eccezionale sensibilità verso le forme di energia mi sorprende ogni volta. Ben presto la tua curiosità sarà soddisfatta, figlio mio » replicò, voltandosi verso l'uscio ed entrando con decisione. « Abbi pazienza... »
    « Ciò che vedrai sarà per te quanto mai... sorprendente. » aggiunse.
    Non gli piacque per nulla il modo in cui aveva pronunciato quella frase.
    Il Padre oltrepassò l’ingresso, portandosi dietro la palla di fuoco che teneva viva nella mano mancina, e il corridoio piombò di colpo nell'oscurità.
    Decise che attendere davanti all'uscio, al buio, non fosse buona cosa.
    Senza ulteriore indugio seguì il mago.
    Una stanza circolare, dal soffitto a cupola sorretto da sei colonne alte quanto tre uomini, si aprì innanzi a lui.
    Il muro era quasi totalmente coperto di muschio e rampicanti. La volta era piena di muffa e gocce d’acqua cadevano dall’alto spezzando il tombale silenzio di quel luogo oscuro.
    Notò che sul soffitto erano presenti delle scaglie di materiale rosso, azzurro e verde.
    Un affresco, senza ombra di dubbio, rovinato dal tempo e dalla muffa.
    « Da questa parte, figliolo » disse il Padre, raggiungendo il centro della stanza.
    Una balaustra delimitava un cerchio nella zona centrale e quattro spesse catene partivano dal pavimento e si infilavano in altrettanti buchi sul soffitto.
    Avvertiva, all’interno di una colonna, la presenza di una piccola stilla di energia vitale.
    Forse una gemma, e genuinamente si domandò perché mai qualcuno avrebbe voluto nascondere una gemma vitale così piccola dentro una colonna.
    Raggiunse il Padre dentro quella piccola piattaforma ed egli scioccò le dita.
    Una scintilla azzurra scaturì dalla mano del mago e uno scatto metallico, come di una leva che si muoveva, riempì la stanza.
    Gli stretti passaggi che permettevano di oltrepassare la balaustra e accedere alla zona centrale si chiusero e le catene si tesero.
    La piccola piattaforma cedette verso il basso di qualche centimetro, come se fosse stata violentemente svincolata da una serie di chiavistelli che la tenevano ben salda al pavimento.
    Le catene presero a cigolare e la pedana di pietra iniziò lentamente a scendere verso il basso.
    « Come avete fatto a muovere questo elevatore, Padre? » domandò, osservando le lisce pareti circolari che scorrevano attorno a lui. « Non c’erano leve in vista, eppure ne ho sentita una muoversi. »
    « Chi ha costruito questo posto lo ha reso quanto più possibile inaccessibile alle persone normali » rispose il Padre. « La leva per mettere in moto il meccanismo esiste ma non è accessibile alle persone comuni: è nascosta dentro una colonna, e solo i maghi possono individuarla, grazie ad una piccola gemma vitale posta sulla sua sommità. Se qualcuno tenta di abbattere la colonna per attivare il meccanismo l’intera struttura crolla. »
    Ecco spiegato il perché di quella piccola gemma vitale.
    Lo avrebbe tenuto a mente.
    La temperatura iniziò ben presto a crescere man mano che scendevano lungo il pozzo dell’elevatore.
    Tirò un sospiro di sollievo.
    Sentì però che anche l’intensità dell’energia magica cresceva esponenzialmente.
    Qualunque cosa ci fosse là sotto diveniva sempre più vicina ogni istante che passava.
    Calcolò che fossero passati almeno dieci minuti di tempo, prima che la pedana giungesse a fine corsa ed impattasse contro il terreno sul fondo del pozzo.
    Innanzi a lui si trovava un altro corridoio, scavato nella roccia naturale.
    La fiamma del Padre illuminava le pareti e il soffitto, coperti di crepe e spaccature.
    Piccoli puntelli d’acciaio arrugginito e legno sorreggevano il soffitto e, sul fondo di quel corto cunicolo, c’era un portone di bronzo scurito dal tempo.
    « Abbi pazienza ancora qualche attimo, figliolo » disse il Padre, raggiungendo in fretta l’uscio metallico.
    Lui gli tenne dietro, in silenzio.
    Dietro a quel vecchio cancello avvertiva chiaramente una grande fonte d’energia magica.
    Una creatura.
    Una grossa creatura.
    Una grossa creatura sopita.
    Un Drago.
    Non aveva dubbi al riguardo.
    Forza vitale mista all’energia di una pura fiamma scaturiva dalla grossa bestia oltre il cancello, ma in qualche modo essa gli parve strana.
    Quella del rettile non era però l’unica forma di vita che avvertiva oltre al cancello.
    Avvertiva distintamente la presenza di altre persone.
    Erano flebili presenze, ma c’erano.
    Infine avvertiva una potenza magica che sovrastava tutte quelle presenti in quel profondo sotterraneo.
    Più grande di quella del Padre.
    Addirittura più grande di quella del drago.
    Esposto a quelle emanazioni arcane sentiva la pelle bruciare, come se si trovasse immerso in un lago rovente.
    « Padre » chiamò, ansimando e portandosi la mano al cuore.
    « Resisti. » replicò lui, impietoso. « Rammenta ciò che ti ho insegnato e non farti sopraffare. »
    Strinse i denti. Non aveva mai affrontato una simile forza arcana, neppure durante le più dure lezioni impartitegli dal Padre.
    Tutta quell'energia gli faceva male, ma contemporaneamente lo incuriosiva.
    Quale essere, o quale oggetto, era in grado di sprigionare tanta potenza?
    E tutta quella forza si poteva in qualche modo sfruttare?
    Il Padre spense la fiamma che usava per far luce, posò la mano sul cancello e spinse.
    L'uscio si aprì lentamente lasciando fuoriuscire un rivolo di fumo ed una luce azzurrina che illuminò il cunicolo dalle loro spalle.
    Il mago gli fece cenno di entrare e lui eseguì, divorato dalla curiosità.
    Si trovò all'interno di un'ampia stanza circolare dal soffitto a cupola. File di colonne sorreggevano la volta da cui pendeva un grosso lampadario avvolto in fiamme color zaffiro.
    Sotto al lampadario, al centro della stanza, era incatenato il dragone di cui aveva avvertito la forza vitale. Fece due passi avanti.
    La bestia gli dava le spalle e da dove si trovava non riusciva a scorgerne in alcun modo la testa.
    Probabilmente la poggiava a terra, nascondendola con il corpo.
    « Osserva, figliolo, osserva che meraviglia! » esclamò il Padre, affiancandolo e indicando il dragone.
    « Avete catturato un drago, Padre? » domandò, prendendo a camminare intorno alla bestia sopita.
    « Una dragonessa, figliolo » replicò il mago, compiaciuto. « E no, non l'ho catturata. »
    Quella frase gli fece storcere il naso.
    Si fermò proprio innanzi al muso allungato della dragonessa, coperto di squame dorate.
    Dalla parte opposta rispetto al punto da cui era entrato nella sala si trovava un altro cancello, solo che invece di esser bronzeo questi era di pietra.
    Una delle due imposte era decorata con un bassorilievo che rappresentava un giovane uomo, mentre l'altra una giovane donna.
    Le due figure si somigliavano.
    Forse erano fratelli?
    Il rettile sputafuoco aveva la faccia incatenata a terra, puntata dritta verso il portone.
    Sbuffi di fumo scuro le fuoriuscivano dalle narici ad ogni respiro.
    Osservò con attenzione la dragonessa.
    Due corna scure le spuntavano dalla sommità del capo mentre le scaglie del lungo collo erano coperte di cicatrici.
    Segni di lotta?
    Lo escluse: il Padre gli aveva detto che quella bestia non l'aveva catturata.
    - Ma allora... - pensò, intuendo dove il genitore volesse andare a parare.
    Notò immediatamente che la dragonessa non aveva quattro zampe, come tutti i draghi descritti nei bestiari, bensì delle ali che spuntavano direttamente al posto degli arti superiori.
    E poi notò le tracce di gesso sul pavimento.
    Linee sbavate, glifi, strutture cristalline.
    « Padre, questa dragonessa l'avete creata con l'Alchimia? » domandò, voltandosi verso il mago.
    Il Padre sorrise compiaciuto.
    L'Uomo si era avvicinato ad un tavolo, poggiato contro il muro.
    Accanto al ripiano notò un grosso telo bianco, che copriva qualcosa.
    Casse?
    Oppure gabbie, forse?
    Per i futuri cuccioli della dragonessa?
    « Sì, figliolo » rispose lui, prendendo ad accarezzare una grossa teca di vetro che era posata sul tavolo. « Questa è una Viverna, figliolo, il primo dragone artificiale mai creato. »
    « Non è ancora perfetta però » aggiunse poi, indicando una grossa zweihänder che era poggiata al muro accanto al tavolo. « La sua fiamma è letale, ma le scaglie non sono resistenti come quelle di un drago vero. I miei... tentativi di fortificarle ancora non hanno avuto successo. »
    Capì al volo la ragione di quelle cicatrici: il Padre colpiva la viverna con la spada per vedere se resisteva alla lama.
    Sì avvicinò al muso della viverna e questa aprì gli occhi, puntando le sue iridi color nocciola dritte nelle sue.
    La bestia si agitò.
    Aprì la bocca.
    Avvertì una vampata di energia arcana fuoriuscirle dalle fauci e subito si gettò di lato.
    Una fiamma scura, densa quanto magma incandescente, eruttò dalla bocca del rettile, seguita da un forte ruggito.
    Si tirò in piedi, sotto lo sguardo attento del Padre.
    « Allora, non trovi sia magnifica la mia creazione? » domandò il mago, con tono di autocompiacimento.
    « Sì, Padre, lo è » rispose, avvicinandosi al genitore. « Ma per quale ragione me l'avete mostrata? »
    « Perché grazie alle viverne il nostro dominio si potrà finalmente espandere » rispose il mago. « La nostra città, il nostro regno, non sarà più soggetto a nessuno dei nostri vicini. Finalmente potremo far vedere a Damasca, a Katane, a Cogadh e a Cordoba la potenza di Archades. »
    « Padre, ma Archades è già indipendente. » replicò, dubbioso. « Le miniere d'oro e di ferro già ci garantiscono la forza di limitare l'espansionismo dei nostri vicini. »
    « Sì, ma non la forza per conquistarli! » esclamò il Padre, risoluto. « Grazie alle mie viverne potremo farlo. E tu mi aiuterai a crearne altre. »
    « Ma padre... »
    « Non ammetto repliche, Figlio » lo interruppe. « Ricordati che sono il Sovrano di questa città, oltre che tuo padre. Mi devi obbedienza. »
    Sospirò.
    « Come avete fatto a creare questa viverna, Padre? » domandò.
    « Unendo in una trasmutazione gli elementi che compongono un essere umano a quelli di un dragone. » rispose il Padre, felice della curiosità di suo foglio.
    « Gli elementi di un... » fece per dire, ma si interruppe di colpo.
    Si voltò verso il drago.
    Comprese al volo la ragione per cui la forza vitale che avvertiva gli era parsa strana.
    « Padre » disse, puntando le sue iridi nere dritte in quelle del genitore. « Dove avete preso il materiale umano per questa viverna? »
    Il Padre rise.
    « Ma da un essere umano, è ovvio! » rispose il mago, allungando la mano verso il telo bianco e strattonandolo con forza.
    Scoprì quattro gabbie, alte sei piedi e larghe tre.
    Una giovane donna dai biondi capelli scarmigliati, emaciata e magra come un chiodo, scattò indietro urlando e picchiando la schiena contro le sbarre della sua gabbia.
    Una bambina dai capelli castani, nella gabbia più lontana, allungò il braccino attraverso le sbarre e cercò di raggiungere l'occupante dell'altra: un uomo sulla quarantina dai sottili baffi scuri.
    Lo riconobbe.
    Elia Volterra. Il Maggiordomo Personale della Regina di Archades, scomparso dalla scena dopo il misterioso omicidio della sovrana.
    Tutti quanti erano nudi, coperti di escrementi, mentre la quarta gabbia era vuota.
    « Papà! » urlava la bambina, protendendosi verso il baffuto.
    Il suo cuore smise di battere per un paio di secondi almeno.
    Sospirò, trattenendo la rabbia.
    « Padre, chi è lei? » domandò, indicando la bionda nella prima gabbia.
    « Una reduce di qualche famiglia nobile esiliata dal Sud. » rispose il mago. « Lei e sua sorella erano le protette della mia cara moglie. »
    Capì tutto.
    Allora la Regina l'aveva fatta uccidere lui.
    La viverna che si trovava al centro della stanza doveva esser la sorella di quella donna, trasmutata selvaggiamente dal Padre in una bestia sputafuoco.
    Lanciò uno sguardo verso la viverna.
    Dal suo grosso occhio vide scendere una lacrima.
    « Padre, voi avete trasmutato un essere umano in una bestia e così facendo avete corrotto anche la sua anima. » disse, con tono grave. « Voi avete stretto un patto con un demone. Dico bene? »
    Il Padre rise.
    « Esatto figliolo! » esclamò, afferrando la teca che c'era sul tavolo e sollevandola sopra la testa.
    Fu costretto ad allontanarsi.
    Era quella teca ad emettere la forza arcana che inondava la sala.
    Sentiva la pelle bruciargli, talmente era forte.
    « Eccolo qui il demone che mi ha concesso il sapere e la forza di fare tutto questo! » esclamò il mago, reso folle da tutta quella potenza. « E anche tu ti sottometterai a lui, figlio, e mi aiuterai a compiere il SUO volere! »
    Ed improvvisamente una molla gli scattò nel cervello.
    « No! » urlò, afferrando il grosso zweihänder e puntandolo contro il Padre. « Questa è pura follia. Padre, tutto questo è un abominio! E nessun regno meriterebbe d'esser governato da un Sovrano come voi, senza Legge e senza Dea! »
    « Legge, figlio? » replicò il mago. « Sono IO la legge qui ad Archades! »
    « Siete spregevole. Voi non siete mio Padre. »
    Lanciò uno sguardo verso le gabbie. Elia, la bambina e la giovane donna lo osservavano come se fosse un fantasma.
    « Osi sfidarmi, figlio? » domandò il Padre, ridendo. « Con una spada?! »
    Il mago posò la teca e alzò il braccio.
    Una palla di fuoco partì dalla sua mano.
    Fu costretto a lanciarsi di lato, per evitarla.
    In effetti affrontare il Padre con una spada non era esattamente la cosa più saggia da fare.
    Quanto ad uno scontro di magia?
    Nemmeno a parlarne.
    D'un tratto gli venne un'idea.
    Si tirò in piedi, schivando un'altra palla di fuoco e corse verso la testa della Viverna.
    « Affrontami, figlio! » esclamò il Padre, inseguendolo e urlando furiosi improperi. « Sottomettiti. Non hai possibilità di salvezza! »
    Concentrò la sua esigua forza arcana nella pesante lama della zweihänder e calò un fendente sul grosso lucchetto che chiudeva le catene della viverna.
    Poi un'altro e un'altro.
    Il metallo cedette.
    La viverna si liberò, ruggendo furiosamente.
    « Vendicati! Brucialo vivo! » urlò, indicando il Padre.
    La bestia voltò la testa verso il mago e vomitò una vampata di fuoco.
    Il Padre non si mosse.
    Pose le mani avanti, con i palmi rivolti verso la bestia, e rispose al fuoco con il fuoco.
    L'Impatto generò un'onda d'urto che per poco non ribaltò le gabbie. Fu costretto ad appendersi alla zampa della viverna per non esser sbalzato via.
    Il Padre rise istericamente.
    « Sei un folle, figlio, se pensi che non sia in grado di distruggere una mia creazione. La farò a pezzi, e poi farò a pezzi anche te. »
    « Siete in errore, Padre » replicò, sollevando il braccio sinistro. « Avete dimenticato di guardavi sopra la testa. »
    Schioccò le dita.
    Il botto di diverse sbarre di metallo che andavano in frantumi riempì la stanza e il grosso lampadario si staccò dal soffitto.
    Il Padre urlò, lanciandosi di lato.
    Rimase con una gamba intrappolata sotto il lampadario mentre la viverna continuava a sputargli addosso fuoco e fiamme.
    Ben presto non riuscì più ad opporre resistenza e venne travolto.
    Urla disumane riempirono la stanza, mentre la carne del padre bruciava lentamente ed inesorabilmente.
    La viverna sputò ancora due flebili getti di fuoco, poi si fermò.
    Sentiva chiaramente che la bestia aveva il fiatone.
    Gli poggiò delicatamente una mano sul muso.
    « Mi dispiace » mormorò.
    La viverna emise un grugnito.
    Il Padre si muoveva ancora. Cercava di trascinarsi via, con la pelle che gli si staccava dal corpo.
    Lo ignorò.
    Raggiunse la gabbie e aprì le prime due facendo saltare i chiavistelli a colpi di spada.
    « Grazie, mio Principe » disse Elia Volterra, uscendo con passo malfermo e abbracciando la figlia.
    Piangevano entrambi.
    Il Maggiordomo prese in braccio la bambina e coprì la nudità di entrambi con il telo bianco che prima nascondeva le gabbie.
    La donna nell'ultima gabbia si ritrasse quando lui si avvicinò.
    « È tutto finito » le disse, per cercare di tranquillizzarla.
    Spezzò il chiavistello e aprì la gabbia, tendendo una mano alla giovane per aiutarla ad alzarsi.
    La donna scoppiò a piangere e lo abbracciò.
    « Grazie! » gli disse, singhiozzando. « È la Dea che vi manda! »
    Si sentì in imbarazzo.
    « Venite, mia signora » le disse, aiutandola a camminare.
    « No, aspettate » disse la giovane, staccandosi lentamente dalla sua presa.
    La bionda gli sfilò delicatamente la spada dalla mano destra e si avviò verso il Padre, ancora intrappolato sotto il lampadario, senza più un pelo addosso, con la tunica bruciata e la pelle dura come il cuoio.
    Lei torreggiò sopra di lui, osservandolo con sguardo impietoso.
    « Vi meritate la Gehenna, per ciò che avete fatto » disse, sollevando la zweihänder.
    E gli mozzò un braccio.
    Il Padre urlò.
    Fu costretto lanciarsi in avanti e afferrare la guardia dello spadone, per fermare la giovane prima che facesse a pezzi il Sovrano di Archades.
    « Non farlo » le disse. « Voi non siete come lui. »
    La donna sospirò, abbassando la spada.
    Si voltò poi verso la viverna e la raggiunse.
    Le abbracciò il lungo collo, e il rettile emise un grugnito.
    Alle sue orecchie quel verso suonò molto simile ad un "uccidimi".
    Le due sorelle, la bionda e la dragonessa, si scambiarono un lungo sguardo di intesa.
    E infine la donna calò la spada sul collo della viverna, ponendo fine alle sue sofferenze.
    Fu costretto a distogliere lo sguardo.
    Si voltò verso il lampadario caduto, alla ricerca del Padre.
    Era scomparso.
    Una striscia di sangue partiva dal punto in cui era rimasto schiacciato e andava verso il cancello di bronzo.
    Mentalmente imprecò.
    - Un problema alla volta -
    Raggiunse la giovane, che era crollata a terra piangendo accanto al cadavere della viverna.
    Si tolse la camicia e coprì le nudità della giovane.
    Le porse un braccio e lentamente si incamminarono verso l'uscita, seguendo Elia con la figlia in braccio.
    « Come vi chiamate, messere? » domandò la bionda, asciugandosi le lacrime.
    « Kynval Felinas di Casa Alken. Per disgrazia, figlio di Mairus Felinas IV, Re di Archades. E voi, mia signora? »
    « Helena Fontaine di Casa Solidor, protetta della Regina vostra madre, mio principe » rispose la giovane...
    « La Regina non era mia madre: sono nato da un rapporto illegittimo con una prostituta delle Miniere Inferiori. » replicò lui, secco. « Ed io non sono il principe di questa città. Vi porto fuori da questo incubo, Helena. Ora è tutto finito. »
    « Grazie » disse lei, abbracciandolo. « Grazie... »


    Alzò nuovamente la testa, facendo scorrer lo sguardo sull'alto cancello in pietra che aveva innanzi.
    Un uomo e una donna, con indosso lunghe tuniche dai bordi decorati con motivi geometrici, campeggiavano sopra a quel portone.
    Era tutto come nel sogno.
    I dettagli erano molto abbozzati: allungati e piuttosto squadrati, secondo uno stile che gli rammentava tremendamente la fine Arte Nanica del Sud, ma comunque sia somiglianti.
    Stessi occhi. Stessa conformazione del viso.
    Erano quasi identici, solo che l'uno portava i capelli corti mentre l'altra una lunga chioma, oltre ad un abbozzo di seni sul petto.
    Una piccola fiammella arancione gli fluttuò davanti agli occhi, emettendo una risatina allegra.
    - Dannato Fuoco Fatuo... - pensò, afferrando la fiammella con la mano destra e lanciandosela dietro le spalle.
    La luce emessa dal fuoco illuminava debolmente la stanza circolare dove si trovava, ma tanto gli bastava per adocchiare i contorni delle colonne, del cancello e del tavolo ribaltato che era poggiato vicino al muro non molto lontano.
    La cosa lo inquietava.
    Al centro della stanza, accanto ad un lampadario di metallo scuro abbattuto, c'era lo scheletro di una grossa Viverna.
    Il cranio allungato della bestia era stato staccato di netto e abbandonato accanto ad una fila di quattro gabbie in metallo arrugginito.
    Una scia di sangue rappreso, che alla luce del fuoco fatuo gli parve nero, partiva da sotto il lampadario e usciva dal pesante cancello di bronzo annerito che si apriva dalla parte opposta rispetto a quello di pietra.
    Sospirò, voltandosi verso l'uscita.
    Il fodero della spada da lato sbatacchiò contro la fondina in pelle della pistola, e le due code della giubba rossa svolazzarono emettendo un fruscio che si spanse per la sala.
    Ora capiva come mai quel sogno gli era parso così famigliare.
    Genuinamente si domandò che cosa diavolo avesse sognato.
    Tirò fuori dal taschino dei pantaloni il suo orologio d’oro bianco, aprì lo sportellino e diede una rapida occhiata alle lancette.
    Sei e trenta.
    Forse era il caso di andare.
    Ripose il segnatempo e alzò lo sguardo.
    Una tremolante luce arancione rischiarava il cunicolo fuori dall’ingresso.
    I biondi capelli di Helena risplendevano illuminati dalla fiamma della torcia che reggeva alta nella mano destra, mentre oltrepassava il bronzeo uscio sollevandosi la gonna del lungo abito azzurro.
    Kynval sorrise.
    « Perdonami se ti ho svegliato di nuovo, Helena » le disse, lanciando occhiate verso il ridanciano fuoco fatuo che continuava a volteggiargli intorno. « Ho fatto un altro sogno strano. »
    La donna sospirò, guardandosi intorno.
    Ella indugiò per qualche secondo sullo scheletro della viverna.
    « Non credevo che saremmo mai scesi nuovamente qui sotto… » disse lei, facendo scorrere lo sguardo sul vecchio tavolo ribaltato e le quattro gabbie arrugginite. « Non lo ricordavi, vero? »
    Kynval sospirò.
    « No, Helena, non lo ricordavo… »
    La bionda si avvicinò allo, sedendosi per terra accanto al cranio mozzato di netto.
    La raggiunse.
    Di colpo il fuoco fatuo smise di ridacchiare, prendendo a volteggiare intorno alla testa della dragonessa.
    « Era mia sorella » disse Helena, facendo scorrere delicatamente la mano sulle ossa lucidate dal tempo.
    « Come si chiamava? » le domandò.
    « Henriette » rispose lei.
    « Ed era una brava persona? » chiese, dopo qualche secondo di silenzio.
    Helena sospirò di nuovo.
    Fece una smorfia di disappunto, più che di tristezza.
    « Non lo so » rispose. « Purtroppo non rammento nulla di lei, Kynval, così come non rammento nemmeno dove abbiamo trascorso la nostra infanzia, da quale regno del Sud proveniamo e chi fossero i nostri genitori… »
    Kynval si sedette accanto alla moglie, e la abbracciò.
    « Mi dispiace » le disse, con dolcezza.
    Lei sorrise.
    « No, non dispiacerti » replicò lei. « Tu non hai colpa: hai semplicemente fatto quel che andava fatto. »
    « Se avessi saputo prima che trasmutare la propria anima comporta anche la perdita dei ricordi… » disse, con tristezza. « Non ti avrei mai permesso di sacrificare anche parte della tua. »
    « E tu pensi che io ti avrei permesso di contrarre la vuotezza? » replicò lei, baciandolo. « Tu avevi vent’un anni, ed io uno di meno, quando abbiamo compiuto la trasmutazione. Se non rammentavi ciò che è accaduto qui sotto significa che hai perso quindici anni della tua vita. Tre quarti di te se ne sono andati di colpo, con una singola trasmutazione. Immagina cosa sarebbe successo se non ci fossi stata io a sacrificare anche la mia anima e i miei ricordi. »
    Kynval sorrise.
    « Grazie di avermi salvato la vita, Helena » le disse, ricambiando il bacio con dolcezza.
    « Non ne abbiamo mai parlato » disse lei, tentennando. « Spero non ti abbia fatto troppo male scoprire… »
    « Alla veneranda età di quarantasei anni che il Sire Dragoviano Mairus Felinas Alken, Re di Archades per volere della Dea, era mio padre? » domandò lui, ridacchiando. « Non più di tanto: son troppo vecchio perché certe cose possano turbarmi. Inoltre il mio nome è Kynval Felinas di Archades, nato da una prostituta delle Miniere Inferiori, sposo di una Solidor, Lord Ammazzadraghi, Re di Archades e Imperatore per volere del mio popolo. Per quanto mi riguarda non ho mai avuto un padre. »
    Helena sorrise.
    « Dobbiamo andare, amore mio » disse, tirandosi in piedi risoluta.
    « Sì » replicò lui, alzandosi e mettendole il braccio attorno al fianco. « I Ministri staranno già attendendo nella Sala delle Ore, suppongo. »
    Si voltarono e, costeggiando la viverna morta e il lampadario abbattuto, uscirono dalla sala.
    Helena afferrò con una mano il fodero della flamberga, che aveva poggiato alla parete appena fuori dalla porta, e se lo mise a tracolla.
    Kynval salì per primo sulla pedana dell’elevatore, si voltò indietro e porse la mano alla moglie per aiutarla a salire.
    Una corda ondeggiava vicino alla balaustra, appesa alla cima del pozzo.
    Kynval l'afferrò e diede uno strattone.
    Le catene dell'elevatore cigolarono e si tesero, poi tutta la struttura prese lentamente a salire verso l'alto.
    « Oggi quindi ordini la smobilitazione delle Forze Armate? » chiese Helena.
    « Sì, finalmente » rispose lui, sorridendo. « Da oggi l'Impero Archadiano finisce di espandersi: è arrivato il momento di pensare alla pace. Per cui avremo diverse cose da discutere con i Ministri, comprese la revisione di alcune leggi e l'impiego dei militari sul territorio. »
    « Insomma: anche oggi faremo notte » commentò lei, ridacchiando.
    « Sei poi riuscito a trovare il tempo di riscrivere in bella calligrafia la Nova Lex? » domandò poi la bionda, poggiando il fondoschiena alla balaustra.
    « Sì, anche se ultimamente le scartoffie e le udienze impegnano gran parte della mia giornata. » rispose lui.
    « Più le scartoffie che le udienze a dire il vero. » aggiunse subito dopo, ridacchiando.
    Helena sorrise.
    « Quel che mi domando è se i Cittadini dell'Impero siano pronti ad assumersi la responsabilità di loro stessi, e delle loro scelte... » disse lui dopo qualche secondo, sospirando.
    « Quindi cederai il Potere Legislativo ad un Concilio degli Stati Generali eletto dai Cittadini? » domandò lei.
    « In parte » rispose lui, sorridendo.
    Helena fece una smorfia di perplessità.
    « Come sarebbe a dire "in parte"? » chiese con tono curioso.
    « Il Concilio degli Stati Generali sarà diviso in due camere separate » spiegò lui. « Una eletta totalmente dai cittadini, ed una più esigua nominata dal Sovrano. In questo modo tutti quanti, dal volgo ai nobili, avranno una loro rappresentanza e si eviterà che il concilio diventi una tirannia sotto mentite spoglie. »
    « Sembra quasi una Repubblica » rise la moglie. « Ma penso sia la cosa migliore da fare: devono imparare ad autogovernarsi, se vogliono sopravvivere anche senza di noi. »
    Kynval sorrise.
    « Quando sarà il momento anche la Nova Lex finirà sul tavolo dei Ministri. » replicò lui. « Per ora meglio tenerla ben chiusa in un cassetto. »
    L'elevatore giunse in cima e si bloccò.
    « Eminenze » salutò Tosca Volterra, sempre avvolta nella sua nera armatura a piastre, portandosi un pugno sul cuore.
    Quattro magistrati attendevano nei pressi dell'ingresso della sala circolare.
    Tra le mani stringevano dei moschetti carichi.
    Sei colonne alte quanto tre uomini sorreggevano un soffitto a cupola, affrescato con la scena di un carro da guerra che si lanciava contro una falange di soldati nemici.
    Quattro bracieri illuminavano la sala con una calda luce arancione, e la corda che pendeva nel pozzo andava ad agganciarsi ad una campanella guardata a vista da un mago dell'Esercito Imperiale.
    « Tosca » replicò Kynval, portando il pugno al cuore.
    « Avete trovato ciò che cercavate, Eminenza? » domandò la magister.
    Kynval percepì un chiaro turbamento nell'animo della donna.
    « Sì » rispose, aiutando Helena a scendere dall'elevatore.
    « Andiamo » disse subito dopo, voltandosi verso l'uscita e incamminandosi con decisione seguito dalla moglie. « Abbiamo delle cose da fare. »
    Tosca rimase qualche secondo ad osservare l'elevatore, poi si voltò in uno svolazzo del mantello, mise l'elmo, e si incamminò verso l'uscita.
    Non appena anche il mago fu fuori i quattro magistrati di guardia chiusero alle loro spalle il pesante cancello di metallo e gli scatti di una ventina di chiavistelli riempirono il lungo corridoio.
    Le pareti erano coperte da decine di librerie, colme di libri e pergamene, intervallate da torce che illuminavano l'area a giorno.
    Decine di giudici, molti avvolti in toghe nere e rosse, facevano avanti indietro prelevando o riponendo tomi dagli scaffali, mentre altri magistrati pattugliavano in corridoio avanti e indietro tenendo la mano sul fodero della spada.
    Dopo quindici minuti di camminata infilarono un'ampia scala a chiocciola che portava verso l'alto.
    Ben presto la luce delle torce venne sostituita da quella del sole mattutino, che penetrava da file di bifore e trifore che scorrevano lungo il muro.
    Svoltarono a destra al primo pianerottolo e attraversarono un alto arco di marmo bianco.
    Percorsero un breve corridoio giungendo infine vicino ad un portone.
    Due Giudici fecero il saluto militare e aprirono l'uscio, rivelando uno stretto bastione che s'affacciava sullo spoglio cortile della Torre del Magisterium.
    Kynval infilò il camminamento con decisione.
    Qualcosa, in basso, attirò la sua attenzione.
    Si fermò.
    Nel cortile, sotto di lui, una coorte di soldati imperiali era schierata a rettangolo.
    Dodici file da dieci uomini l'una.
    I soldati non avevano armi.
    Un gruppo di Corazzieri, alabarde strette in pugno, attendeva nei pressi dell'Ingresso principale del Magisterium, e un Giudice camminava lentamente in mezzo alle file di uomini.
    Per ogni fila indicava un soldato a caso e il militare faceva un passo avanti.
    E Kynval intuì immediatamente cosa stava succedendo.
    « Che cosa hanno fatto, Tosca? » domandò alla Magister.
    La donna lanciò un'occhiata verso il cortile.
    « Un tentativo di stupro, Eminenza » rispose la donna. « Diversi giorni fa, a Cleycourt. Qualcuno li ha visti e ha sporto denuncia. Abbiamo ricevuto la notizia mentre la coorte era in viaggio di trasferimento, e i colpevoli non sono ancora saltati fuori. »
    I dodici soldati che erano stati scelti dal giudice vennero condotti nei pressi del gruppo di corazzieri, insieme al comandante della coorte.
    Kynval sospirò.
    Distolse lo sguardo e riprese a camminare.
    La Legge parlava chiaro.
    Un flebile ordine giunse alle sue orecchie dal basso.
    Una parola sola, semplice e chiara.
    « Decimateli. »

    Edited by Colonnello Wolf - 9/10/2014, 22:42
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    Aprì gli occhi. Sentiva il corpo pesante, strano, quasi estraneo; lo sguardo, gli occhi blu notte in parte coperti da ciuffi corvini, perso tra le venature del legno che riempivano il soffitto.
    Lentamente sollevò il braccio destro e si guardò la mano, il palmo e il dorso, le dita e le unghie, rigirandola più volte, scoprendo ogni sua sfumatura ad ogni movimento.
    Si toccò il viso, la guancia destra e le labbra; seguì il corso dei capelli stupendosi nello scoprire fin dove arrivavano: come un mare nero che inondava il materasso, lambendo il pavimento.
    Provò ad alzarsi sollevando la schiena, facendo leva con entrambe le braccia, ma nel spostarsi su un fianco, le forze la abbandonarono, perse l’equilibrio e cadde dal letto.
    “È successo un’altra volta, quanti anni avrò recuperato?” pensò tastandosi la fronte già gonfia, dolorate per il colpo subito, e il naso gocciolante sangue, trattenendosi a stenti dall’imprecare.
    Virginia si pulì il naso col dorso della mano, cercò di mantenere la calma e si girò, tornando a osservare il soffitto, sdraiata sul pavimento; era immersa nei suoi pensieri mentre fissava una ragnatela e alcuni ragni che si prodigavano nel costruirla.
    Sollevò rapidamente il braccio destro, una saetta bianca e blu scaturì dalle punte delle dita e della ragnatela non rimase nient’altro che fili sfatti, cadere dall’alto leggiadri come fiocchi di neve in una notte d’inverno, seguiti dalle meteore in fiamme che erano i ragni.
    “Ho lasciato lo specchio sul tavolo, non dovrei avere problemi a prenderlo.”
    S’alzò pian piano trovando sostegno nel letto che aveva al suo fianco, facendo forza sulla struttura in legno affinché le nuove gambe riuscissero a reggere il nuovo peso: in pochi minuti era in piedi, tremante, ma certa che stavolta non sarebbe caduta.
    Barcollando, Virginia raggiunse il tavolo, a pochi passi dal letto; poggiò le mani sullo schienale della sedia, la trascinò indietro e si sedette.
    Cominciò a frugare tra i fogli disseminati sul tavolo; spostò la Bibbia di Maxwell, aperta sul piano di legno, rischiando di colpire con il braccio il calamaio colmo d’inchiostro.
    Trovò lo specchio accanto al fermaglio per capelli che Astrea le aveva regalato il giorno prima, lo prese per il manico finemente decorato, color argento, si specchiò e sorrise.
    “È ora di tagliarli.” si disse, scostando una ciocca nera per vedere meglio il viso ovale, la pelle chiara, rosata, le guance soffici e il naso piccolo, gonfio e rosso per via della caduta, il suo viso di quando aveva vent’anni.
    “Non è ancora abbastanza, ma in queste condizioni dovrei riuscire a tenere testa a un Giudice, e Maxwell si pentirà di avermi ridato altri cinque anni della mia vita.” pensò, avvicinandosi al letto e recuperando il coltello nascosto sotto al cuscino.
    Strinse i capelli in una coda, portò la lama dietro la testa e contò un pollice di distanza dalla cute: con un preciso fendente Virginia si privò della sua splendida chioma, digrignando i denti nel momento in cui il freddo metallo la recise.
    “Il problema è scoprire per quale motivo quel maledetto demone si diverta tanto a giocare con la mia età perché non so proprio cosa pensare.”
    Gettò i capelli rimastigli nella mano sinistra nel braciere ormai spento del caminetto e che per un attimo riprese vita quando i fili neri toccarono le ceneri calde.
    Riprese lo specchio d’argento e si guardò ancora una volta.
    “Non c’è male ma posso fare di meglio.”
    Virginia lasciò il coltello e prese il fermaglio per capelli, le perline che scintillavano assieme ai colori sgargianti delle piume di pavone cui era fatto, e aiutandosi con lo specchio, l’indossò sulla sinistra, tirando indietro quei ciuffi corvini che ancora le coprivano parte del viso.
    “Adesso sì che va bene.” commentò soddisfatta.
    Poggiò lo specchio sul tavolo e compì alcuni giri intorno alla stanza, per abituarsi meglio alla sua nuova condizione; si sgranchì le ossa, distendendo le braccia, e ci mancò poco che un fulmine non colpisse il soffitto: per fortuna si dissolse prima che potesse raggiungerlo.
    “Devo fare più attenzione.” pensò, fissandosi le mani pervase da scintille, notando che più in basso la gonna le arrivava alle ginocchia, lasciandole esposti i piedi e parte delle gambe.
    “Uhm… l’ultima volta mi sono svegliata completamente nuda ma stavolta i vestiti sembrano a posto” si disse, controllando prima la gonna poi se la camicia di batista avesse subito dei danni “La gonna è corta e la camicia un po’ stretta sul seno, probabilmente il corpetto non mi andrà più bene ma non importa, ora ho ben altro cui pensare.”
    Virginia si lisciò i vestiti spiegazzati e tornò a sedersi al tavolo di legno; dopo aver riordinato il piano e preparato un foglio bianco e la penna d’oca intinta d’inchiostro, avvicinò a sé la Bibbia di Maxwell, la chiuse e cosparse la copertina di polvere da sparo: quando la riaprì le parole erano tornate al loro posto, permettendole di riprendere dal punto in cui si era fermata.

    Quei due bambini di egual aspetto, nati dallo stesso grembo materno quasi nel medesimo istante, possedevano caratteri e comportamenti diversi.
    Keeran, il primogenito maschio, era splendido, una rosa nel mezzo dei rovi, figlio di contadini ma paragonabile a un nobile, abile nel creare, nel distruggere e nel manipolare.
    Se lo desiderava, semplicemente, ciò che toccava brillava di nuova vita, cadeva ai suoi piedi o si sgretolava, tornando alla polvere da cui era nata; nessuno poteva opporsi alla sua volontà ed era questo il suo orgoglio, il suo diletto, che lo distingueva e lo faceva sentire speciale, unico.
    Kiera, la secondogenita femmina, era limpida e semplice come la madre, una violetta tra le tante disseminate nei prati, che lavorava assieme al padre nei campi, curando le piante e gli animali.
    Era una bimba dolce come miele, sensibile e amorevole; amava la vita e le sue piccole cose ed era felice così, con ciò che aveva, senza ricchezza né sfarzo.


    Virginia si fermò a osservare un’immagine, raffigurante i due fratelli (avranno avuto cinque o sei anni): c’era Keeran in ginocchio, con le piccole mani poggiate su quella che sembrava una rondine, e Kiera che teneva l’animale nelle sue, il volto triste, prossimo alle lacrime.
    Erano in una casa dalle pareti, il pavimento e il soffitto di legno, affianco a una finestra, cui era possibile scorgere il cielo in tempesta, le montagne lontane che facevano da sfondo.

    Spesso capitava che Kiera portasse a casa un animale ferito, e correva subito dall’amato fratello, dicendogli di averlo trovato per strada, nei boschi o nei campi attorno a casa, e che sarebbe stato maligno ignorare il suo richiamo disperato.
    Keeran voleva bene alla sua sorella e non esitava mai ad aiutarla; porgeva le mani sull’ala rotta dell’uccellino, una luce e in un istante, tornava a volare, sbatteva le ali e si librava nel cielo, sotto lo sguardo sempre meravigliato di Kiera, gli occhi cerulei, lucidi per la commozione, della bimba dai lunghi capelli dorati che dall’animale in volo passavano al fratello.
    «Grazie Keeran!» esclamava gioiosa, porgendogli una rosa canina trovata ai margini del bosco.


    “Keeran è il mio Maxwell.” concluse Virginia, sfiorando coi polpastrelli l’immagine del giovane demone “Non mi resta che scoprire che fine abbia fatto e finalmente avrò la mia vendetta.”
    Sfogliò rapidamente le pagine successive, fermandosi su alcune immagini oppure leggendo parte degli eventi che raccontavano la giovinezza e la crescita dei due, ma senza dare troppa importanza e proseguendo oltre, finché una parola a metà libro non attirò la sua attenzione.
    «Gli anni passarono e Kiera, ormai adulta, nella sua semplicità trovò l’amore

    La donna conobbe il suo uomo di ritorno dai prati, tenendo in mano una cesta in vimini colma di fiori d’ogni tipo: la primavera aveva dipinto la distesa erbosa di mille colori e Kiera desiderava raccogliere i doni che la natura offriva in quella stagione.
    Fu quand’ormai mancava poco al suo casolare che notò un giovane, all’ombra di un ciliegio in fiore, i petali immacolati che sospinti dal vento, cadevano al suolo mentre l’uomo canticchiava un bel motivetto di cui ora si son perse la musica e le parole.
    Lei si avvicinò curiosa, attratta da quella dolce melodia.
    Lui la sentì arrivare, si voltò e i loro sguardi s’incrociarono per un singolo istante, ma ciò bastò a far scoppiare quel sentimento chiamato “amore”.
    Kiera raccontò ai genitori e al fratello di quell’evento la sera stessa: era estasiata nel descrivere l’attesa del calare del sole, il tramonto e i suoi splendidi colori ammirato assieme all’uomo che senza dubbio alcuno considerava quello della sua vita, l’unico che sapeva di poter amare con tutta se stessa, ora e per sempre.
    Madre e padre erano estasiati, si complimentarono con Kiera e già la parola “unione” era nei loro pensieri; dall’altra parte, Keeran, nonostante il sollecito della sorella, non aprì bocca: s’alzò dal tavolo della cena, uscì di casa e se né andò.
    Da quella notte del primogenito dei Maxwell non si ebbero più notizie; sparì tra le montagne e non si presentò nemmeno quando Kiera giurò eterno amore a Kain, sotto le fronde del ciliegio in fiore dove s’erano incontrati, cinti dal dolce turbinio roseo dei petali.


    Virginia chiuse la Bibbia sull’immagine dei due sposi che sugellavano il loro amore con un tenero bacio; scrisse gli ultimi particolari sul foglio e attese che l’inchiostro fosse ben asciutto, prima d’inserirlo tra le prime pagine del libro.
    “Sarebbe interessante leggerlo per intero“ pensò Virginia, mentre s’alzava dalla sedia “Peccato che la polvere da sparo non cresca sugli alberi.”
    Uscì dalla stanza e scese al primo piano della locanda: la sala principale era semideserta, pochi avventori consumavano la colazione seduti alle file orizzontali di tavoli che la riempivano, tanto che Virginia non impiegò molto a trovare un posto dove mangiare in tutta tranquillità.
    Non appena si sedette, una donna in abiti da locandiera, con i lembi del grembiule color crema che ondeggiavano ad ogni suo passo, arrivò a chiederle l’ordinazione.
    «Potresti portarmi una ciotola di zuppa d’avena, panini dolci, burro e marmellata di ciliegie? E una birra al miele, s’è possibile.» domandò Virginia, facendo tintinnare sul tavolo un galeone d’argento.
    La donna, che Virginia ricordava si chiamasse Carla, la fissò per un attimo, incuriosita dal suo aspetto, dopodiché raccolse la moneta e rispose che sarebbe tornata presto con ciò che aveva chiesto; tornò poco dopo con un vassoio e il suo contenuto che sprigionava l’aroma del pane appena sformato, assieme al dolce della marmellata e dell’avena cotta nel latte.
    Sistemò sul tavolone di legno due ciotole, una con burro e marmellata, l’altra con la zuppa, assieme a un cucchiaio e a un coltello; un cestino in vimini, tondo, con un paio di panini dolci al suo interno e un boccale di birra.
    Virginia ringraziò Carla e prese il cucchiaio di legno.
    “Amore” pensò, mandando giù un po’ di zuppa “Keeran Maxwell era geloso della sorella per una cosa simile, lui che con un solo sguardo poteva realizzare qualsiasi cosa?”
    Poggiò il cucchiaio sulla ciotola e afferrò il coltello; tagliò in due un panino, l’imburrò e spalmò sopra la marmellata di ciliegie.
    “Possibile che per lui, il volere bene a Kiera andasse ben oltre? No, non devo pensare a ‘ste cose: il mio obiettivo è scoprire dove Maxwell si nasconda e vendicarmi per avermi privato di vent’anni della mia vita e per aver ucciso mia madre!”
    Finì il pane dolce con la marmellata e le ultime cucchiaiate di zuppa, aiutandosi con un sorso di birra al miele: l’interno della sua bocca era un tripudio di dolcezza tra le ciliegie, rese ancora più dolci dalla lunga cottura a fuoco lento, il latte che ammorbidiva il sapore dell’avena e la birra nel suo connubio di dolce e amaro.
    “Sarà il mio nuovo corpo ma era da tempo che non mangiavo così bene.”
    Pienamente soddisfatta, Virginia mise da parte la ciotola svuotata e prese la sua sacca di cuoio contenente le monete; l’aprì, controllando quante gliene rimanevano.
    “Non va bene” si disse contando un paio di galloni d’oro e d’argento, assieme a qualche tallero “Avrei fatto bene ad accettare la stanza offertami da Kynval, almeno non mi sarei ritrovata con così poco denaro ora che desidero acquistare un’arma nuova.”
    Rimise le monete nella sacca, lasciando fuori un tallero dal valore più alto di mancia; s’alzò dal tavolo e risalì le scale che conducevano al secondo piano.
    “Potrei vendere il corpetto, così risolverei il problema dei soldi.” pensò mentre apriva la porta della sua stanza e si avvicinava al letto; prese il corpetto poggiato sopra e lo sistemò nel sacco di iuta, assieme alla Bibbia di Maxwell.
    Uscì dalla stanza con il sacco sulle spalle e tornò al primo piano; quando fu fuori dalla locanda, dopo pochi passi avvertì qualcosa: per non destare sospetti non si voltò e proseguì per la sua strada, ma era certa che qualcuno la stesse osservando.


    Edited by FGBDU - 9/1/2015, 17:36
     
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    Sono Bradamante Agazi.
    Non so leggere, non so scrivere, non so più pregare.
    Ma ho scoperto di saper disegnare. So farlo decentemente.

    Intinse nuovamente il pennino nella ciotola con l’henné rosso; un odore acre avvolgeva la pelle tiepida che si stendeva sotto di lei, una schiena bianca di indubbia bellezza che lei stava contaminando di inchiostro vermiglio.
    L'odore lo sentiva bene.
    Era senza benda attorno al naso.
    Finalmente.
    A cavalcioni sulla donna, Bradamante assunse un cipiglio deciso:
    - Ora vediamo se hai capito, Astrea… - commentò, col pennino a mezz’aria.
    La donna mugugnò, la zazzera bionda immobile e le braccia adagiate sui cuscini.
    - Qual è la pratica Agazi? – Inquisì. E si aspettava una risposta articolata.
    Astrea sospirò e l’inspirazione fece inarcare la schiena tra le cosce di Bradamante, che si mantenne in equilibrio tendendo le braccia indolenzite.
    - Un’Ave Agata al mattino e uno la sera. Per i più devoti, ogni volta prima di un pasto, fosse anche rubato.
    - Guadagnato – la corresse lei – Seguita pure… -
    La guerriera prona mugugnò:
    - I bambini vanno sempre aiutati in qualsiasi situazione. Se uno schiavista viene colto nell’atto di vendere un bambino, l’Agazi è moralmente obbligato a rendere la libertà al piccolo prigioniero o col denaro o con la violenza -
    Bradamante si chinò sulle scapole della bionda; col pennino graffiò la pelle congiungendo due segni ondulati.
    - Devo fare Esposizione una volta al giorno per raccontare episodi edificanti della vita di Sant’Agata.
    - Bene.
    - Non ho capito però se non c’è nessun Agazi nei paraggi a chi devo fare Esposizione una volta al giorno – concluse Astrea, con tono interrogativo.
    - E’ ovvio che se non c’è nessun confratello, tu puoi startene per gli affari tuoi. L’obbligo è solo per le preghiere, che di solito sono pronunciate a voce talmente bassa che per sentirci devono stare ad un tiro di schiaffo -
    “Sentirci”. Aveva usato il “noi”. Ma non c’era più nessun “noi”: lei non era più una Agazi; non poteva dirsi completa senza la protezione della santa che irrimediabilmente continuava a bestemmiare. Si sentì ipocrita.
    - Per il resto la pratica Agazi è estremamente libera. E’ ovvio che, in quanto non asserviti al potere, il rubare per sopravvivere e per rendere grazie ad Agata non è sempre uguale di giorno in giorno. Quindi non si pretende che l’Agazi faccia esattamente le stesse cose quotidianamente, soprattutto ora che vengono pubblicamente perseguiti -
    Continuò a passare il pennino sullo stesso punto, in modo tale che l’henné facesse presa.
    - Sarà un guaio se qualcuno mi chiederà di fiutare metalli… - commentò la donna sotto di lei.
    Bradamante sospirò.
    - Ti devi inventare una balla decente: per qualche motivo il tuo addestramento deve essere stato interrotto quando eri piccola e non è stato più continuato.
    - Tu non hai in mente una scusa già pronta?
    - No, Astrea. Non so neanche immaginarmi un motivo buono per cui un Agazi non dovrebbe continuare l’allenamento dei metalli… senti, posso farti un occhio vicino alla campana? Bello grande, incisivo!
    - Non puoi disegnarmelo più giù? Magari sul ventre? Mi piacciono le cose discrete…
    - Come vuoi, ma un occhio tatuato sul basso ventre indica un Agazi di basso rango o addirittura uno che è stato in prigione ed è stato usato come oggetto sessuale dai suoi compagni -
    Il profilo del naso di Astrea disegnò una curva bellissima e poco distante l’occhio smeraldo si sgranò.
    - Credo proprio che tu ti sia convinta a tatuarlo sulle spalle. Brava ragazza! – chiocciò Bradamante.
    - Io però sono un po’ preoccupata, Bradamante…
    - Per cosa?
    - Ormai è da un bel po’ che disegni, e abbiamo fatto in tempo tu a parlarmi della pratica Agazi, io a impararmi a memoria l’Ave Agata e qualche racconto di tuo nonno, Massimiliano...
    - E quindi? -
    Astrea sospirò:
    - E quindi, Bradamante, quanto grandi me li stai facendo, questi tatuaggi?! -
    Scoppiò a ridere:
    - Tranquilla! Ho appena finito! -
    Smontò dalla schiena della donna e mise pennino e boccetta sullo scrittoio mai usato.
    Aveva le dita arrossate di inchiostro e le unghie sembravano incrostate di sangue, ma si sentiva soddisfatta: erano decenni che non disegnava. Eppure, a quanto pareva, l’idea del nonno di farle imparare a riconoscere le piante facendogliele disegnare si era alla fine rivelata più utile del dovuto.
    - Rimirati pure! – esclamò, inclinando lo specchio accanto al letto.
    Quando Astrea si mise di spalle allo specchio e sbirciò da sopra la spalla il lavoro che aveva fatto, Bradamante vide dipingersi sul suo volto dapprima la sorpresa, poi il disgusto e alla fine un’ira veemente.
    - Ti avevo detto di farmelo piccolo! -
    Si era immaginata già delle rimostranze, quindi sapeva anche come rispondere:
    - Gli Agazi iniziano a tatuarsi verso i quindici anni. Alla tua età un Agazi ha già tre quarti della pelle scritti fitti. Sulla sua epidermide c’è la storia della sua vita e in cinque anni un Agazi vive un mucchio di cose. Sarebbe sospetto il fatto che tu abbia solamente un simbolo stereotipato -
    Astrea prese a passarsi la mano destra sulla schiena, avanti e indietro, il fruscio sempre più udibile che non cancellava comunque le tracce del passaggio del pennino di Bradamante sulla distesa avorio:
    - Sei un flagello, Bradamante! Guarda com’è ridotto qua dietro! Ti avevo chiesto una cosa! Una! -
    Ecco, forse questo iniziava a far parte di una reazione che lei non aveva previsto. Soprattutto perché Astrea riusciva a mantenere una serafica calma anche quando le frustava le nocche.
    - Astrea, sul serio, è per il tuo bene. Fra l’altro è qualcosa che nell’arco di tre mesi prima si inverdisce e poi sbiadisce del tutto, quindi non c’è bisogno di perdere così le staffe…
    - Ma quali staffe? Guarda che cos’è! E questo cos’è? Ma dico, perché mi hai tatuato questo angelo… e che ha in mano? – Gli occhi di Astrea divennero due voragini aperte su una foresta inesplorata e a Bradamante parve di sentire il grido di qualche animale selvatico promanare dai pozzi di smeraldo.
    - E’ un archibugio? Da quando in qua gli angeli hanno gli archibugi?! -
    Bradamante si slacciò il corpetto, mentre Astrea perseverava nei suoi cinque minuti di disperazione per la sua purezza perduta:
    - E questo cos’è? Una campana che diventa un sole?! -
    Bradamante si sfilò la camicia dall’alto e il freddo le punse i capezzoli. Astrea si voltò sgranando ancora di più gli occhi, così tanto che temette le cadessero dalla faccia:
    - Che stai facendo? -
    Rimase così, con Astrea che la fissava terrorizzata. Tenne le braccia sulla parte sinistra del busto a coprire il tentacolo e il seno martoriato, i calzoni che pian piano calavano rivelando il disegno di una pinza e di un coltello sulle cosce. C’erano lividi viola sulle ginocchia e graffi. Tanti graffi. Ma i graffi non si fermavano alle gambe e continuavano, vecchi e nuovi, lungo i fianchi e poi sulle braccia. E per quelli che ancora svettavano rossi sul pallore doveva ringraziare Yichudim. E Grazyn.
    Grazie, Yichudim, grazie.
    Braccia che allargò, lentamente.
    I pozzi sulla foresta smisero di mostrarle il mondo selvaggio che si celava nella testa di Astrea e perfino il color verde acceso parve scurirsi di una tonalità, le poche rughe d’espressione acuirsi, le occhiaie approfondirsi. La guerriera serrò le labbra, strette. Le stava mordicchiando? Era forse uno spasmo di disgusto quello che Bradamante vide nella contrazione della mano che Astrea usava per stringersi i panni su pube e seno?
    - Questo è il mio corpo a poco più di vent’anni, Astrea -
    L’altra indietreggiò, senza smettere di osservarla all’altezza del petto.
    - E ti assicuro che, a parte la ovvia menomazione dovuta a patti di cui non mi va troppo di parlare, non è diverso dal corpo di una qualsiasi donna Agazi della mia età -
    La bionda guerriera che di solito la sovrastava di una spanna parve accasciarsi di fronte a quello spettacolo.
    Si mise in ginocchio di fronte a lei, fissando i disegni sulle cosce:
    - Perché questi arnesi? -
    Aveva le labbra rosee schiuse per lo stupore.
    - Sono gli strumenti di tortura di Sant’Agata. Se li tatuano le Agazi che si sono sverginate con dolore – Si carezzò distratta quei segni, poi si guardò le dita come se le vedesse per la prima volta:
    - Ah. Il Chi e il Ro. Sono altri simboli di Sant’Agata. Sulle nocche per proteggersi durante gli scontri all’arma bianca -
    Astrea fece scorrere lo sguardo all’insù fino a incontrare il suo; Bradamante non seppe dire se fosse di comprensione o di incomprensione. Chissà se quella donna era vergine. Chissà se aveva mai partecipato a una rissa.
    La linea dello sguardo dell’algida bionda si spostò lievemente:
    - Quelle sul collo sono chiavi incrociate e ne capisco il significato anche io.
    - Brava ragazza – commentò Bradamante. Sorrisero entrambe.
    Astrea non fece domande sul viluppo di tentacoli disgustosi. Invece indicò col dito il ventre di Bradamante:
    - Perché l’occhio? Perché proprio sulla pancia? Scommetto che ha a che fare con atti sessuali, come hai detto prima -
    Si ritrovò colma di orgoglio per quella donna di poco più giovane di lei che aveva così in fretta imparato le parole che le aveva rivolto, su una cultura così diversa dalla sua. Non era come fare Esposizione: Bradamante sapeva di poter raccontare storie col furore e la bellezza che più si addicono ad un Agazi invasato e quindi di poter incendiare il pubblico… ma era un gioco semplice. Gli altri Agazi sapevano già come andava a finire. Tutti erano catechizzati sulle storie Agazi e tutti avevano un patrimonio comune da cui attingere. Infiammare un pubblico di credenti era semplice.
    Ben altra cosa era infiammare una profana.
    - Ho dovuto fingermi una prostituta durante la mia sfortunata fuga verso Cleycourt…
    - Cleycourt? – chiese Astrea, guardandola di nuovo negli occhi, sempre in ginocchio.
    - Sì. Quella che hanno appena conquistato.
    - No, la mia sorpresa è per il fatto che anche io ero a Cleycourt e ho viaggiat… -
    La bionda si interruppe. Si morse le labbra. Spazzò via quel che stava dicendo con un volteggiare di mano callosa e tornò a fissare l’enorme occhio tatuato sul ventre:
    - Questo mi fa davvero impressione, Bradamante, e perdona la mia schiettezza -
    Sorrise debolmente ad Astrea:
    - E’ evidente che il mio corpo è martoriato, bistrattato e tatuato. E’ così ogni corpo Agazi. Ripeto, inizia ad esserlo già a quindici anni; fa parte di quel che troviamo bello di questo mondo e dell’altro. Le storie, quelle lunghe, travagliate, con una trama talmente intricata che merita di esser divisa in racconti diversi -
    Inclinò la testa da un lato, pensando ad Agata e a quello strano frullio di ali che le formicolava nello sterno, forse un cenno di approvazione della Santa rinnegata.
    Fissò Astrea, che non smetteva di studiarla come se fosse una bestia strana da cui, in qualche modo, era morbosamente affascinata:
    - Ci piacciono così tanto, le storie, che ce le disegniamo addosso – concluse Bradamante.
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  13. Toshiro Umezawa
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    Percorreva il lungo corridoio a tentoni, seguendo il muro più vicino a sé nel tentativo di muoversi il più velocemente possibile, per sfuggire agli incubi che ne insidiavano il sonno: di tanto in tanto, le finestre che, sul lato opposto davano sul cortile interno del castello, erano attraversate da lampi terribili, a cui seguivano i tuoni che tanto terrorizzavano la piccola bimba.
    I fulmini assomigliavano, nel loro fragore, ai passi di qualche creatura gigantesca che si stesse avvicinando alla sua casa, tutt'altro che benintenzionata.
    Proprio a causa loro Astrea si era svegliata con la vocina esile che chiamava i genitori, ma la paura la rendeva incapace di gridare, così, pian piano, come temendo di disturbare qualcuno, procedeva lungo l'androne decorato di armature e vecchi arazzi, verso la camera di mamma e papà.
    Quando le saette facevano riecheggiare la luce momentanea sulle corazze a sui dipinti, essi sembravano assumere forme grottesche e minacciose, figure che la spingevano a piangere e a singhiozzare.
    Infine si trovò davanti alla porta della stanza e lì prese a bussare con le manine sul legno: da prima lo fece sommessamente, poi sempre più forte, finché qualcuno dovette sentirla, perché sentì dei passi provenire verso la direzione dei colpi.
    Fu con sollievo che vide prima le gambe muscolose e villose del padre, e poi la sua faccia barbuta mezza indolente per il sonno.
    Con un enorme sbadiglio, l'uomo si chinò verso la figlia, chiedendole per quale motivo si fosse alzata nel cuore di quella notte così tempestosa.
    -Devi fare pipì?-
    Astrea scosse la cascata di capelli biondo paglia, frignando e passandosi il dorso della mano sugli occhi, per scacciare le lacrime.
    Artosius le si avvicinò ulteriormente: ora i loro sguardi erano alla stessa altezza.
    -Hai paura? Ancora brutti sogni?-
    Stavolta la piccola annuì con timidezza, e lanciò un'occhiata acquosa al padre, che già sapeva cosa avrebbe chiesto la figlia.
    Emise un sospiro, per metà divertito e per metà stanco:
    -E va bene: puoi venire a dormire con noi, ma solo per stanotte, intesi?-
    Astrea sorrise meravigliata, la furbetta: come se non avesse saputo dove voleva andare a parare!
    Si gettò sul padre per abbracciarlo, che per poco non cadde: lo stupiva sempre quanto fosse forte la sua piccina, nonostante avesse solo quattro anni.
    A volte si chiedeva se non fosse per il modo in cui era venuta al mondo...e di nuovo, come ogni volta in cui pensava a quell'evento, si ritrovava col respiro mozzato, perché non poteva.
    Non riusciva proprio a fissare negli occhi Astrea e pensare al momento in cui avrebbe dovuto dirle tutta la verità.
    Dal par suo, la piccola sapeva solo che poteva andare a letto con papà e mamma, per cui si mise a correre per la camera, la vestaglietta che ondeggiava con grazia dietro di sé, fino a quando non si aggrappò sulle coperte e si infilò tra le braccia della madre, dove si addormentò all'istante.
    Heleanor la strinse forte contro il suo corpo caldo, e osservò, con uno strano scintillio negli occhi, la figura scura di suo marito che si avvicinava a lei.
    Dopo che si fu coricato, passarono alcuni momenti prima che l'uomo chiedesse, con voce stranamente acuta:
    -Avremmo fatto bene?-
    -Cosa, caro?-
    Non rispose subito, ma, quando lo fece, il suo timbro era incrinato.
    -Cosa dovrò dirle? Come farò?-
    La donna allungò il braccio libero dalla stretta della figlia e lo posò con una certa pressione sulla spalla del marito, fino a farlo girare, in modo che i loro sguardi si incontrassero: gli occhi del suo amore erano tempestati di gemme tremolanti.
    Pensò con distacco improvviso che era molto raro che Artosius piangesse.
    -Ricordati che questo, qualunque cosa possano dire i maghi o i sapienti o gli alchimisti, è pur sempre il frutto del nostro amore, prima che della nostra unione: quando verrà il momento per dirle ogni cosa, allora io sarò con te.-
    L'uomo annuì, rivolgendole un sorriso mesto, e si girò di nuovo: dopo pochi minuti, lo sentì russare rumorosamente.
    Heleanor lo fissò ancora per un po', i penetranti occhi azzurri che sembravano trapassare la carne e le ossa...quegli occhi che non sembravano nemmeno umani.
    “Forse” si disse, mentre il sonno iniziava a far presa sulla sua volontà “Astrea non sarà del tutto umana, ma di una cosa sono sicura: noi la amiamo più della nostra vita, e faremo di tutto per proteggerla, finché non sarà abbastanza grande da cavarsela da sola.
    Non m'importa cos'è.
    Lei è nostra figlia, Astrea.”
    La bimba dormiva profondamente: sognava monti altissimi e innevati, montagne che venivano improvvisamente divorati da un fuoco anormale, mentre lei osserva il tutto con calma e serenità.



    La ragazza si dava da fare sul piatto di biscotti e miele che le era stato preparato da Elia, il maggiordomo di Kynval, contornato da una tazza enorme di latte.
    Mangiava con tale foga da far pensare all'anziano servitore, che in quel momento si trovava al tavolo con lei, per farle compagnia, che non avesse mai mangiato in vita sua.
    Lo divertiva, quella vista: una bionda dagli occhi verdi come smeraldi che si accaniva sopra una galletta al miele.
    Si trovavano in una sala che dava su un piccolo terrazzo in pietra, nel quale vi erano numerosi vasi di fiori e statue: i tiepidi raggi del sole toccavano la schiena della bionda, scaldandone il punto in cui il tatuaggio rosso era stato inciso sulla pelle.
    Astrea si era svegliata solo da pochi minuti, ma, mentre addentava l'ennesimo biscotto dorato, già recitava a memoria i dogmi che Bradamante le aveva insegnato, cercando di non perdere la concentrazione.
    “Un'Agazi opera solo per prelevare ai ricchi...il denaro e i metalli acquisiti sono tributi a Sant'Agata...i bambini sono le bocche della Santa, vanno protetti e tutelati...Agata era una nobile che quando era giovane...”
    Con soddisfazione crescente, scoprì di ricordarsi tutto per filo e per segno: ciò, se possibile, aumentò ulteriormente il suo appetito, al punto che arrivò a doversi dare un freno, altrimenti si sarebbe rimpinzata troppo.
    Quando si alzò dalla sedia, si sentì rinata: dopo l'esperienza del giorno prima, non credeva che sarebbe riuscita a farsi passare per una Agazi credibile, ma ora era ottimista sulle sue possibilità, cose che le capitava ben di rado.
    “Ora non devo fare altro che comunicare al “capo” che sono pronta a partire, e dopo potrò salutarla.”
    Chinò lievemente la testa per salutare l'anziano servitore: Elia si limitò a sbattere le palpebre, placido, e a sorriderle.
    Si avviò con passo spedito verso la stanza di Bradamante, facendo sbatacchiare il fodero della spada contro le cosce.
    Aveva buttato via la corazza di pelle, ormai logora e sporca, in favore di un gambeson bianco, indossato con un foulard al collo, anch'esso candido ed immacolato: sopra una lunga cappa di panno nero come il carbone, mentre ai piedi portava alti stivali di pelle.
    I suoi passi producevano un curioso riverbero sul pavimento di marmo: un suono che le ricordava una notte di tuoni, una brutta notte con incubi e pensieri sgradevoli.
    Astrea scosse la testa: aveva cose più importanti da fare che riportare a galla vecchi ricordi.
    Quando fu davanti allo studio di Kynval, bussò delicatamente: era vero che si erano dati appuntamento lì, ma temeva di disturbarlo.
    “Non vorrei che fosse alle prese con qualche faccenda di stato.”
    -Avanti.-
    La ragazza aprì la porta di noce ed entrò nella stanza.
    Non era cambiata di molto, alle pareti c'erano sempre i soliti arazzi, le usuali colonne si ergevano dagli angoli della camera, mentre, di fronte a lei un tavolo di ebano reggeva scartoffie di ogni genere e ceri appena accesi.
    Nel caminetto alla sua destra c'erano alcuni ciocchi di legno, ma non erano accesi.
    In risposta all'entrata di Astrea, l'uomo che sedeva alla tavolata e che ogni tanto scriveva qualcosa sulle carte, alzò lo sguardo fino ad incrociare quello della ragazza.
    Nuovamente Astrea avvertì il senso di timore reverenziale che aveva provato durante l'udienza, però questa volta sentì che poteva permettersi un rapporto meno formale con Kynval.
    Questo, perché lui lo concedeva.
    Accorgendosi, almeno in apparenza, solo in quel momento del camino spento, l'uomo puntò la mano sinistra verso i pezzi di legno: una scintilla, e quelli presero fuoco all'istante.
    Mentre percepiva il calore crescente sulla pelle del viso, Astrea commentò in cuor suo che non avrebbe mai affrontato Kynval, a meno che non fosse un giorno di pioggia.
    -Allora, c'era qualcosa che desideravi dirmi?-
    La voce del sovrano la riscosse dalle sue fantasticherie.
    -Kynval, sono qui da lei per comunicarle che, infine, sono pronta a partire.-
    -Oh- disse lui, scostando per un attimo la mano dalla piuma intinta di inchiostro che reggeva come una spada-quindi lei ti ha fatto il tatuaggio?-
    -Esatto.-
    -Spero non sia stato doloroso: sai, non credo sia semplice accettare un tatuaggio del genere così, sul momento...però mi pare d'aver capito che sia un disegno temporaneo, o no?-
    -Esatto, sparirà tra qualche settimana, in tempo per il completamento della missione, mi auguro.-
    “Glielo avrà detto Bradamante?”
    -Ah, a tal proposito desideravo ringraziarla per...-
    Kynval sorrise e la bloccò con un gesto della mano.
    -Non occorre: anzi, se permetti, dovrei essere io a farlo. Sei anche stata troppo brava ad imparare a memoria quelle frasi in volturiano in così poco tempo...per di più ti sei impegnata in una missione molto pericolosa.-
    La ragazza scosse il capo, lievemente imbarazzata.
    -No...non si preoccupi. Sarò attenta a conservare quanto più integra la mia vita: in fondo, ho anch'io un obbiettivo.-
    Stava per voltarsi, quando si ricordò di una cosa molto importante.
    -Se non le è di disturbo, gradirei che salutasse Virginia da parte mia: sa, non so se riuscirei ad andarmene, intendo dopo averla incontrata...-
    -Non c'è nessun problema, sarò felice di recare il saluto alla tua amica.-
    -Allora...la saluto, e ancora grazie.-
    Si inchinò rigidamente, le mani lungo i fianchi e le guance imporporate: forse fu un po' troppo formale, ma voleva nascondere l'ansia che l'aveva ghermita in quel momento, alla partenza.
    -E io ti auguro ogni fortuna, Astrea Lancaster: possa la tua via essere sgombra di pericoli.-
    Kynval si alzò in piedi e si batté il pugno sul petto, in segno di rispetto.
    Astrea, senza indugiare oltre nella stanza, richiuse la porta alle sue spalle e si diresse verso la sua camera.
    Un volta che fu nei suoi appartamenti, rimase a lungo seduta sul letto a ripensare a ciò che si sarebbe portata dietro in quel viaggio.
    In parte aveva già preparato le vettovaglie (in particolare alimenti a lunga conversazione, come fagioli secchi, carne di banteng, formaggio stagionato; fortunatamente, aveva trovato un negoziante che vendeva le schiacciate di mais che tanto amava, e su quelle contava per il maggior sostentamento nel viaggio), le coperte e le fiaschette dell'acqua.
    Tutto ciò lo avrebbe portato in una sacca che in quel momento giaceva abbandonata su una sedia in un angolo della camera, simile ad una marionetta dimenticata a cui avessero tagliato i fili.
    Invece non sapeva ancora quali libri portare, tra i molti che aveva a disposizione lì, sul tavolo di legno di fronte a lei: c'erano tomi sulla storia di Voltur, volumi sulle usanze redatti dai primi regnanti di Katane, manuali linguistici basilari e piccole raccolte di preghiere.
    “Se potessi avere una sacca magica che si possa riempire all'infinito, è probabile che me li porterei appresso tutti...” ridacchio tra sé e sé.
    “No, cerca di stare seria, và...cosa sarebbe meglio caricarsi? Uhm, sicuramente il più utile è il manuale linguistico” e lo prese tra le mani, studiandolo da vicino, tastandolo sulla copertina di pelle e sfogliandolo fino alle sezioni che aveva sottolineato.
    Erano riproduzioni non da poco quelle: certo, non erano gli originali conservati nella biblioteca imperiale, ma Kynval aveva dato ordine ad una squadra di scrivani e copisti perché lavorasse notte e giorno, affinché producessero una lavoro soddisfacente alle esigenze di Astrea.
    “Buongiorno, sono Astrea”
    La ragazza ripeté questa frase in dialetto minshing, il più usato a Voltur, finché non fu sicura di ricordarlo debitamente, passando poi ad una rapida riesamina delle espressioni che aveva appresa nel poco tempo che aveva avuto a disposizione.
    “Logico che questo sarà un alleato fondamentale nel viaggio...sarà meglio che me lo studio anche mentre procedo verso Voltur.”
    Squadrò il libriccino nero ancora per un po', poi, in preda ad un pensiero che non avrebbe saputo dire da dove le fosse sorto, lo prese e lo impugnò a mo' di spada, ergendosi fiera con la mano sinistra sul fianco, la gamba destra sulla sedia e il viso rivolto davanti a sé.
    -Oh, mia salda lama di carta, concedimi la forza!-
    Dopo che ebbe completato la rappresentazione, si sedette sul letto e scoppiò a ridere come una pazza: una risata sfrenata, ma nervosa.
    Aveva paura, e prima, di fronte a Kynval non aveva voluto dimostrarlo: come non lo aveva fatto durante l'udienza.
    “Sono terrorizzata: potrei morire, in fondo, ma questo è il mio cammino e non serve a nulla piangerci sopra. Caso mai, se dovessi trovarmi di fronte a un Volturiano, potrei sempre sfidarlo in una gara culturale.”
    Amava molto le lettere e i libri si storia: molta gente pensava che le bionde fossero oche, ma lei era una prova che si sbagliavano o che almeno ci fossero eccezioni; se appariva un po' svampita a volte, era fatta così, e non ci poteva fare molto.
    “Bè, dai, il manuale di lingue e scritture, la carta geografica di quel poco che si sa del Khanato, direi un libro sulle usanze più inusuali e...basta, direi: sono a posto.”
    Astrea rimirò compiaciuta il bell'ordine con cui aveva disposto il tutto nella sacca da viaggio, e si sentì, se non pronta, almeno spinta a partire.
    Ma prima doveva assolutamente salutarla.

    Bussò alla porta, ma già dall'assenza di rumori poteva dedurre che quel giorno l'ufficiale gentile come uno scaricatore di porto non era presente a vessare l'Agazi, per cui entrò quando sentì la voce della donna che la invitava.
    Salutando Bradamante, la ragazza notò che appariva in qualche modo più in forze dei giorni precedenti: dapprima non ne capì il motivo, ma poi lo collegò stupidamente al tatuaggio che le era stato disegnato sulla pelle appena il giorno prima.
    “No, che sciocchezze.”
    -C'era qualcosa che volevi dirmi, Astrea?-
    “Proprio come Kynval” osservò stupita la ragazza.
    -Ecco, volevo salutarti, Bradamante. Sai, sto per partire per un viaggio- si passò nervosamente la mano tra i capelli.
    “Non credevo fosse così difficile, accidenti!”
    -Insomma, volevo...volevo ringraziarti per ciò che mi hai dato...e, e avevi ragione.-
    La donna la osservò con uno sguardo a un tempo divertito e incuriosito: sicuramente non le era mai capitata tra le mani una persona come la bionda che le si parava goffamente davanti in quel momento.
    -Su cosa, Astrea?-
    -Su quello che hai detto a proposito delle storie che portiamo appresso: in questo momento un capitolo della mia storia si sta chiudendo, ma...ciononostante-
    e sorrise, non molto sicura di aver ottenuto l'effetto che voleva
    -desideravo porgerti i miei ringraziamenti per quello che mi hai fatto scoprire e per quello che mi hai permesso di essere, seppur non per sempre.
    Grazie, Bradamante.-
    La rossa accolse senza battere ciglio quel saluto e per alcuni secondi l'aria fu insolitamente calda, come la prima volta in cui lei e l'imperatore si erano incontrati, ma poi Bradamante si alzò e, con passo sicuro, le si avvicinò fino ad essere a pochi centimetri di distanza.
    La ragazza rimase sorpresa, ma non indietreggiò.
    -Quando tornerai- le disse la Agazi, porgendole la mano chiusa a pugno- andremo insieme a berci qualcosa, d'accordo?-
    Astrea rifletté per un attimo che non amava bere, ma, mandando in malore tutti i suoi dogmi, fece cozzare lievemente il suo pugno contro quello della donna.
    -Contaci.-
    E lo voleva davvero.
    -Però, niente latte.-
    La risposta della rossa la colse alla sprovvista, poi esplose in una risata autentica, che spazzò gli ultimi timori che aveva e la caricò di nuovo coraggio.
    Sì, pensò mentre usciva dalla stanza di Bradamante e si avviava verso i suoi appartamenti: il sole stava scaldando la sua pelle, mentre la lama d'argento sbatacchiava contro i fianchi con cadenza regolare.
    “Tornerò, e non festeggerò solo con Bradamante, ma anche con Virginia.”
     
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    « … e questo è quanto, Eminenza. »
    Tosca fece un passo indietro, allontanandosi dalla scrivania di mogano che occupava il centro della Sala delle Ore.
    Il caminetto crepitava dietro una fila di militari coperti dalle armature brune, disposti a semicerchio attorno al ripiano.
    La porta sul fondo della sala era aperta.
    Due corazzieri, bardati con l’Alta Uniforme e le alabarde lucidate a specchio, montavano di guardia innanzi all’ingresso.
    « I tuoi agenti hanno scoperto altro? » domandò Kynval, alzando i suoi neri occhi dalla mappa che era adagiata al centro della scrivania e puntandoli in quelli grigi di Tosca.
    « Nulla di più, Eminenza » rispose la magister, poggiando la mano sinistra sul fodero della spada bastarda che le pendeva dal fianco. « In compenso hanno scoperto l’identità di alcuni sobillatori in seno ai confini dell’Impero: il Principe di Cogadh è forse l’unico di cui valga la pena fare il nome. »
    « Se mi posso permettere: il Principe di Cogadh è sempre stato una testa calda, Eminenza » si intromise un soldato dalla folta barba scura, con la testa completamente pelata.
    « Voi siete di Cogadh, Siegfried » disse Kynval, facendo cenno all’uomo di parlare liberamente. « Lo conoscevate? »
    « Piuttosto bene, a dire il vero » rispose il maresciallo, grattandosi la barba con la mano destra guantata d’acciaio. « Come ben sapete, Eminenza, prima di servire l’Esercito Archadiano seguivo la corte Cogadhiana come consigliere militare. Spesso e volentieri durante il mio servizio ho dovuto… discutere con il principe. Non mi sorprende che si sia sentito un po’ male all’idea di diventare Principe del Nulla dopo l’Annessione. »
    Kynval ridacchiò.
    Voltò la testa verso un uomo dal volto rotondo, con le guance coperte da folti basettoni bianchi e un paio di baffi rivolti verso il basso.
    « Magister Navarro? » domandò, con tono deciso.
    L’uomo fece un passo avanti.
    « La Gendarmeria si è già occupata del problema, Eminença » rispose il Giudice. « Con la smobilitazione il controllo delle strade e la pattuglia dei boschi è finalmente tornata di competenza dell’Esercito. Ora la Gendarmeria ha tutti gli uomini che gli servono per mantenere l’ordine nelle città e proteggerne le mura. Se posso permettermi: credo che non possa andar meglio di così, almeno dal mio punto di vista. »
    « Dal vostro non avevo dubbi. Dal mio i problemi spuntano come funghi, invece. »
    Due metri di armatura spinata si fecero avanti.
    Un paio di occhi azzurri, vitrei, si intravedevano sotto l’elmo cornuto dell’uomo.
    Kynval sorrise.
    « Ho appena preso le redini dell’Ufficio che si occupa delle Carceri » spiegò Yichudim, con tono irritato. « Tra i criminali comuni, i ribelli e anche gli evasori fiscali che mi spedisce il Magister Mercier… »
    Un magistrato dal volto affilato, con una profonda stempiatura azzurra e una benda a coprigli l’occhio sinistro, voltò la testa verso lo spinato.
    « …sto facendo veri e propri miracoli per organizzare i trasferimenti di detenuti e trovar loro posto nelle prigioni » continuò Yichudim, ignorando le occhiatacce del Magister dai capelli azzurri. « Mi sono occupato del Campo del Khalak per diversi anni, e ritengo che erigerne altri seguendo quel modello sia la soluzione più adeguata alle circostanze. »
    Kynval annuì.
    « Le finanze non sono un problema, e sono d’accordo con voi. Per cui bisogna solo decidere dove collocarli. » disse, voltando la testa verso una donna avvolta in un’elegante tunica color borgogna, con i capelli scuri venati di bianco avvolti in uno chignon .
    « Se vogliamo usare i soliti criteri di scelta, allora, ritengo che si possano erigere almeno cinque nuovi campi di prigionia sui Monti Cinerei, nella giungla e anche nei pressi del deserto. » disse la donna, facendo un passo avanti e puntando l’ossuto dito verso le bianche montagne disegnate sulla mappa.
    « Quanto tempo prevedete vi possa servire, Primo Ministro? » domandò il Magister Mercier, incrociando le braccia e voltando la tua testa dalla chioma color cielo verso la donna. « L’Ufficio delle Finanze continua a scovare nuove frodi ai danni dell’Impero, e non passa giorno senza che la Guardia del Tesoro arresti qualcuno. Parlando con il Magister Yichudim, e tenendo conto degli arresti giornalieri, stimo che le carceri saranno piene tra non più di sei mesi. Forse anche meno. »
    La donna sospirò, portandosi la mano al mento.
    « Il Campo del Khalak è stato eretto in poco meno di tre mesi» replicò. « Con l’aiuto dei Maghi dell’Esercito, e se metto all’opera tutto il Ministero delle Infrastrutture, penso si possano terminare i lavori entro lo stesso tempo. Ma per farlo bisognerebbe iniziare la costruzione di tutti i campi immediatamente e in contemporanea. »
    « Cassio? » domandò Kynval, voltando la testa verso l’anziano incantatore.
    L’uomo fece un passo avanti, in una svolazzo della sua tunica nera.
    « Possiamo farlo senza grossi problemi » disse il mago, annuendo. « Se necessario richiederò l’aiuto di qualche giovanotto dall’Accademia Arcana Archadiana, quanto meno eviteremo di togliere uomini dalle guarnigioni: ultimamente le incursioni dei Goblin e Ratti delle Caverne si stanno facendo più frequenti. Preferisco quindi non togliere troppe risorse magiche all’Esercito che guarda le strade. »
    « Molto bene » disse Kynval, spostando indietro la sedia e tirandosi in piedi. « Allora datevi da fare. »
    La ministra e Cassio portarono il pugno al cuore e fecero un lieve inchino, uscendo poi dalla sala.
    « Navarro, Mercier, avete altro da sottoporre alla nostra attenzione? » domandò Kynval, posando la mano sinistra sul fodero della spada da lato.
    « No, Eminenza » risposero i due magistrati quasi in coro.
    « Allora potete tornare alle vostre faccende » replicò lui, facendo loro cenno con la mano di uscire.
    Navarro e Mercier rimisero in testa i loro elmi bruni, portarono il pugno al cuore e abbandonarono la Sala delle Ore con i mantelli di seta cremisi che sventolavano alle loro spalle.
    « Passiamo alle questioni più spinose » disse, srotolando una pergamena sul tavolo.
    Tosca gli si affiancò.
    « Ci sono stati movimenti oltre il confine Volturiano » esordì la magister, indicando la spessa linea rossa che tagliava a il continente disegnato sulla mappa.
    S’udirono dei passi fuori dalla porta, e i corazzieri che sbattevano il pugno contro il cuore.
    Tutti i presenti si voltarono verso l’uscio.
    « Perdonate il ritardo » disse Helena con voce candida, oltrepassando l’ingresso ed avvicinandosi alla scrivania. « Le udienze di oggi si sono protratte parecchio. »
    « Non preoccuparti » le sorrise Kynval. « Ci sono stati problemi? »
    « Una questione di proprietà tra un Nano ed un Lusertiano, che per poco non finiva in uno scontro armato » rispose lei. « Il resto della mattinata è stato piuttosto ordinario. »
    Kynval ridacchio.
    « Dove eravamo rimasti? » domandò a Tosca.
    La magister si schiarì la voce.
    « Dicevo: ci sono stati dei movimenti lungo il confine volturiano, specialmente nei pressi del Regno di Katane » disse, indicando con il dito una linea rossa poco a ovest di Archades. « Sfortunatamente, non avendo molti agenti oltre il confine, non saprei dire se si tratta di una mobilitazione vera e propria. »
    « Siegfried? » domandò Kynval, voltando la testa verso il Cogadhiano.
    « Ho ricevuto numerosi rapporti dai miei uomini nei pressi del confine » disse il Maresciallo, avvicinandosi alla scrivania. « Pattugliando le strade alla ricerca di Goblin delle Pianure e Troll hanno intravisto, come mia moglie dice, parecchi movimenti sospetti. Soprattutto da parte della cavalleria volturiana. »
    « Credo sia un segnale abbastanza eloquente » si intromise Helena, incrociando le braccia. « Saggiano le nostre posizioni. »
    « Concordo » disse Tosca, annuendo. « Fanno su e giù da diverse settimane ormai. Ho ricevuto messaggi dai miei agenti di stanza sulle navi mercantili che percorrono le rotte tra Arpenia e la Penisola di Falkar: pare che anche il mare sia pieno di convogli militari volturiani. »
    « Dobbiamo presumere che i Voltur siano preparando una guerra. Katane è nei sogni dei piccoli Khan di confine da anni ormai » disse Kynval, osservando la mappa. « Nella Piana d’Oro la loro cavalleria avrebbe gioco facile: cinquecento miglia di pianura, una strada praticamente diritta per il Muro della Contrizione. Cogadh è un ambiente collinare, e disseminato di fortezze: se vogliono attaccare o per Katane o da nessun’altra parte. »
    « E l’aumento del traffico di galeoni militari, Eminenza? » s’intromise Shallaqi, che fino a quel momento era rimasto in silenzio nei pressi del camino.
    « Una precauzione » rispose Helena al suo posto.
    Ecco perché amava quella donna alla follia.
    « L’Impero prende diverse miglia di costa e abbiamo decine di porti, centinaia di navi da guerra e migliaia di navi da trasporto » continuò l’Imperatrice. « Sanno bene che nel caso di una aggressione da parte loro reagiremmo sia via terra che via mare: si impiega meno tempo a far sbarcare i soldati direttamente sulle loro coste, prelevandoli dal continente e facendoli partire dai porti di Valentia e Arpenia, che trasferendoli via terra. Ad eccezione dei vostri domabestie e delle guarnigioni già di stanza sul confine il resto delle truppe sarà affidato alla amorevoli cure della Marina da Guerra Archadiana. »
    « Qui ad Archades dispongo di sedicimila domabestie pronti alla battaglia, Eminenza » disse Shallaqi con tono deciso. « In caso di attacco potrei intercettare la cavalleria dei Voltur in neanche mezza giornata. »
    « Sedicimila domabestie risulterebbero comunque pochi rispetto alle centinaia di migliaia di cavalieri che può schierare l’Impero Volturiano » replicò Kynval. « In compenso solo ad Archades, tra Gendarmi, Militari e membri della Guardia Imperiale, sfioriamo il milione di unità. Mobilitando anche le guarnigioni di Katane, Nova Vista e di tutti i borghi lungo il confine arriviamo a un milione e centomila circa. Non intendo sacrificare Katane e i suoi abitanti, per cui sfrutteremo la forza che abbiamo a disposizione qui per tener i Voltur fuori dal confine. »
    Tutti quanti annuirono.
    « Tenetemi informato » ordinò, facendo cenno a Siegfried e Shallaqi di lasciare la stanza.
    I due fecero in consueto saluto e lasciarono la Sala delle Ore.
    Kynval sospirò.
    « Come sta andando l’allenamento di Bradamante? » domandò a Yichudim, con tono calmo.
    « Impara in fretta » rispose lo spinato. « Durante le ultime sessioni è riuscita a mantenere un certo controllo anche senza la maschera profumata. »
    « Molto bene » replicò lui con tono soddisfatto. « Grazyn sta bastonando come si deve anche lei? »
    Vide le mani di Helena, Tosca e Yichudim correre istintivamente a massaggiarsi la schiena.
    « Abbastanza » replicò il giudice dagli occhi vitrei.
    Kynval trattenne una risata.
    « Posso domandarvi, Eminenza, perché state facendo così tanto per addestrare una sporca criminale? » domandò Yichudim, senza mascherare troppo la sua irritazione.
    « Ritengo che tutti quanti meritino una seconda chance » rispose lui. « Altrimenti non ci prenderemmo la briga di arrestare i criminali invece di ucciderli sul posto. »
    « Solo per questo, Eminenza? » incalzò lo spinato, incrociando le braccia.
    Kynval sospirò.
    « No » disse. « Bradamante, Virginia e Astrea sono tre tasselli fondamentali nel puzzle, e vanno protetti con cura. »
    « Bradamante, Virginia e Astrea? » domandò Tosca, con tono perplesso. « Perché? »
    « Virginia sta dando la caccia alla Setta dell’Occhio Insanguinato e a Maxwell. Ancora non so perché lo faccia, ma ritengo abbia i mezzi necessari per riuscire laddove il Magisterium metterebbe sul chi vive la Setta. È una ragazza discreta e nessuno sospetta che stia lavorando per noi. Neppure lei stessa. Per cui penso sia perfettamente al sicuro anche qui ad Archades. » spiegò Kynval, incrociando le braccia. « Astrea invece è sulle tracce di De Verdun, e sono ragionevolmente certo che quell’alchimista da strapazzo abbia a che fare con gli Armaioli e anche con Maxwell. Solo che con il pasticcio di Cleycourt la principessa ha attratto troppo l’attenzione: l’unica cosa che ho potuto fare per farla sparire dalla circolazione, e proteggerla, è stato spedirla fuori dall’Impero, laddove nessuno si immaginerebbe mai di poterla trovare… »
    « A casa del nemico. Proprio nel cuore dell’Impero Volturiano » constatò Helena, sorridendo. « Ma non sarà pericoloso? »
    « Saprà cavarsela egregiamente » rispose lui.
    « E Bradamante a cosa ci serve? » chiede Yichudim, sospirando irritato.
    « Quando il Conclave sarà finito gli Armaioli saranno messi fuori legge » rispose Kynval, lisciandosi i baffi. « I più saranno arrestati, ma alcuni andranno sicuramente a cercar riparo dietro le sottane del Gran Khan dei Voltur. E ben sai che i Voltur ci odiano… »
    « A quel punto i Voltur, forti del loro esercito e della polvere da sparo che i vendicativi Armaioli doneranno loro » continuò Tosca, con tono lugubre. « Ci dichiareranno guerra. »
    Yichudim sospiro.
    « Quindi la Agazi rimarrà la nostra migliore possibilità di… » tentennò lo spinato.
    « Opporre ai Voltur resistenza ad armi pari » concluse Kynval al suo posto. « Quindi è nostro preciso dovere assicurarci che l’unica produttrice di Polvere da Sparo e Armi da Fuoco a cui avremo accesso sia ben protetta, e sappia difendersi in extremis anche quando noi non saremo lì a guardarle le spalle. »
    Yichudim sospirò.
    « Capisco… » commentò acido.
    « Non c’è altro, Yichudim, puoi tornare alle tue carceri » ordinò infine Kynval. « E mi raccomando: tratta bene la Agazi. »
    Il Magister fece una smorfia di disappunto, si portò il pugno al cuore e lasciò l’ufficio.
    « L’ultima frase l’hai detta solo per sfizio, vero? » gli domandò Helena, incrociando le braccia e reclinando la testa con aria divertita.
    « Chi lo sa... » replicò lui, ridacchiando. « Bradamante ora dove si trova? »
    « Nella Sala d’Armi con Grazyn, Eminenza » rispose Tosca, lanciando un’occhiata fuori dalla finestra.
    « Andrò a farle una visita » disse lui, incamminandosi verso l’uscita della Sala delle Ore. « Sono curioso di osservare i suoi progressi. »
    « Era da un po’ che non ti vedevo con un’espressione così allegra, amore mio » gli disse la moglie, osservandolo mentre infilava la porta. « Devo preoccuparmi? »
    « Non per me » replicò lui, ridacchiando e lasciandosi alle spalle l’Ufficio…

    Di draghi, falconi e grifoni che volavano nel cielo ne aveva visti tanti, in passato.
    Forse addirittura troppi.
    Ma di donne che volavano da un capo all’altro d’una Sala d’Armi non ne aveva vista mai nessuna.
    Rimase fermo sulla porta per qualche secondo, con la mano poggiata sul chiavistello, ad osservare Bradamante mentre terminava la sua parabola contro una panca poggiata al muro opposto della stanza rettangolare.
    « Non devi mai sbilanciarti in avanti » le intimò Grazyn Nowak, poggiandosi le mani artigliate sui fianchi ossuti. « Rischi che l’avversario ti afferri e proietti in avanti. »
    Bradamante mugugnò qualcosa, sollevando il braccio verso l’alto e lasciandolo ricadere a peso morto.
    Kynval oltrepassò la soglia.
    Bradamante voltò la testa verso l’uscio e Grazyn si voltò indietro.
    « Eminenza » salutò la mezza lusertiana, facendo un inchino militaresco.
    « Graz… »
    Kynval non fece in tempo a portare il pugno al cuore che vide la punta del bastone della maestra saettare verso di lui.
    Si gettò indietro di scatto, inarcando la schiena.
    Vide la punta della spada di legno passargli pochi centimetri sopra al volto.
    Senza pensarci due voltò rotolò di lato, evitando il bastone che andò ad impattare contro il pavimento.
    Si tirò in piedi.
    « Ottimi riflessi, Eminenza » disse la lusertiana scattando indietro e mettendosi in guardia. « Avete imparato bene. »
    « Vi ringrazio, Grazyn » replicò lui, dandosi lo slancio con le gambe e tirandosi in piedi. « Ma il merito è della mia insegnante. »
    La lusertiana sorrise.
    « Hai visto come ha fatto sua Eminenza? » domandò voltandosi verso la Agazi, che nel frattempo si era tirata in piedi ansimando.
    « Sì! » rispose Bradamante, prendendo a massaggiarsi la schiena.
    Grazyn sospirò.
    « Perdonate l’assalto, Eminenza » disse, facendo un inchino.
    « Non hai nulla da farti perdonare » replicò Kynval.
    Si avvicinò alla Agazi.
    « Come va la tua schiena? » le domandò.
    Bradamante roteò i suoi occhi gialli, puntandoli dritti in quelli neri di Kynval.
    « B… Bene » balbettò.
    Lui sospirò.
    « Non dire fesserie » replicò, dandole un colpo secco nella zona lombare.
    La Agazi inarcò la schiena di colpo, in uno scricchiolio di vertebre seguito da un urlo talmente forte da trapanare i timpani di tutti i presenti.
    Nella sala d’armi calò il silenzio.
    Grazyn era rimasta imbambolata con gli occhi sbarrati, ad osservare l’Agazi che aveva preso a massaggiarsi la schiena tirando sospiri di sollievo.
    « Meglio? » le domandò Kynval, incrociando le braccia.
    « Sì » rispose Bradamante, con le pupille dilatate e un tono che ricordava quello tipico del post coito.
    « Ma cosa le avete fatto? » domandò Grazyn con tono perplesso.
    « Ho favorito il rilascio di endorfine con un pizzico di alchimia » rispose lui, poggiando la mano sinistra sull’impugnatura della spada da lato. « Aiutano a sopportare il dolore, anche se hanno un effetto piuttosto eccitante… »
    « Notavo, eminenza… » commentò la lusertiana, facendo un cenno con la testa verso la Agazi che era crollata su una panca con la bava alla bocca.
    Kynval si grattò la testa.
    - Forse ho esagerato un poco… - pensò.
    « Yichudim non verrà, Eminenza? » chiese Grazyn, voltandosi verso la porta.
    « Oggi no, Grazyn » le disse lui, porgendo una mano alla Agazi e dandole una mano ad alzarsi. « Posso rubarti l’allieva per qualche ora? »
    Bradamante si riscosse di colpo nell’udir quelle parole, sgranando gli occhi.
    « Certamente » rispose la maestra, facendo un inchino.
    La lusertiana posò la spada di legno nella rastrelliera e si congedò, lasciando velocemente la Sala d’Armi.
    « Eminenza? » domandò Bradamante, attirando la sua attenzione.
    « Tranquilla, non intendo massacrarti di botte » le disse lui, sorridendo.
    La Agazi tirò un sospiro di sollievo.
    « Posso posare la spada? » chiese, sollevando l’arma.
    « Quella di legno sì, puoi posarla » replicò lui, incamminandosi verso la porta. « Prendine una vera, quella che è più di tuo gusto. »
    Sì fermò sulla soglia, voltandosi indietro ad osservare la Agazi che, un po’ timorosa, si avviò verso la rastrelliera con le armi.
    Una decina di spade d’ogni tipologia e dimensione erano accuratamente disposte l’una accanto all’altra, corredate dal loro fodero.
    Bradamante fece scorrere lo sguardo sulle spade lunghe prendendone una dal pomo argentato, con l’impugnatura avvolta in una sottile striscia di pelle azzurra e la guardia a crociera che curvava elegantemente verso il basso.
    La estrasse dal fodero grigio, dando una rapida occhiata alla lunga lama a guisa di foglia lanceolata e al ricasso pronunciato.
    « Ottima scelta » commentò Kynval, annuendo soddisfatto.
    Allungò la mano verso un attaccapanni posto accanto alla porta, afferrò un cinturone in pelle marrone e lo lanciò alla Agazi.
    « Prenditi anche il fodero » le disse, infilando la porta. « Non avrai intenzione di portarti in giro la spada ignuda, spero. »
    Bradamante afferrò malamente al volo il cinturone, lasciandosi scappare un verso di stupore, poi agguantò il fodero e lo seguì fuori di corsa.
    « Da questa parte » le disse Kynval, puntando dritto verso l’interno del bosco.
    Il sole di Mezzogiorno era alto nel cielo. Raggi di sole penetravano dalla volta di foglie verdi e rosse dei faggi, dei pini e dei larici che coprivano il Giardino dell’Eden.
    « Perché mi avete detto di prendere una spada vera? » gli domandò la Agazi, affiancandolo e stringendosi il cinturone in vita.
    « Perché credo sia ora che tu ne abbia una » rispose lui, scostando un ramo e passandoci sotto. « Consideralo un segno di fiducia. »
    Una piccola radura si aprì nel mezzo del boschetto.
    Una casetta in legno coperta di muschio e edera giaceva seminascosta nella vegetazione al limitare dello spiazzo, mentre un tronco d’albero tagliato occupava il centro del prato verde.
    « Un segno di fiducia? » chiese la Agazi, seguendolo al centro della radura.
    Kynval si fermò nei pressi del tronco tagliato, annuendo.
    « Quindi ora questa è mia? » domandò Bradamante con tono sorpreso, osservando il fodero della lama che ora le pendeva al fianco.
    « Sì » confermò Kynval, sedendosi sul tronco. « Ma non esserne così felice. Portare una spada non è cosa facile. »
    Bradamante gli lanciò contro uno sguardo perplesso.
    « Non credo sia molto diverso dal portare un coltello per difendersi, Eminenza » disse. « Durante i miei viaggi raramente giravo disarmata. »
    Kynval ridacchiò.
    « So che voi Agazi avete una passione per i coltelli, in particolare per quelli a scatto » disse. « E lo capisco: è nella vostra natura. »
    « Nella… nostra natura…? »
    « Sì… »
    Kynval si tirò in piedi, estraendo la spada da lato.
    « Un coltello è un’arma piccola… discreta » spiegò, osservando la lama di acciaio damascano che splendeva al sole. « Un coltello può essere estratto ed usato per offendere senza che nessuno se ne renda conto. Voi siete ladri, ed è nella vostra natura usar discrezione. Anche nel difendere le vostre vite. »
    Bradamante annuì.
    « Una spada, al contrario, ha dimensioni importanti » continuò Kynval, indicando con l’indice la punta della lunga e sottile lama che reggeva in mano. « Portare una spada al fianco significa manifestare apertamente la propria intenzione di lottare per difendere la vita tua e di coloro che ti stanno intorno. Estrarre la spada dal fodero è un’azione plateale, evidente, così come sarà evidente la tua volontà di combattere per difender ciò che ti è più caro. Dietro la lama della tua spada trovano rifugio tutte le tue ambizioni e i tuoi desideri, tutte le tue certezze e le tue insicurezze. Dietro quel gelido pezzo di metallo sta la tua vita e la vita di coloro che intendi proteggere. Per cui non estrarla MAI dal fodero se non hai il coraggio di usarla. Portare una spada non è un privilegio: è una responsabilità. »
    « Ma io… » tentennò Bradamante, poggiando la mano sull’elsa.
    « Tu cosa? »
    Assottigliò gli occhi fino a farli diventare fessure.
    Bradamante deglutì.
    « Non sono certa di poterlo fare » disse.
    « Allora fai un favore a tutti quanti » replicò lui, puntando la lama al collo della Agazi. « Usa quella spada per suicidarti. »
    Una goccia di sudore corse lungo la fronte della donna.
    « La questione è molto semplice, Bradamante Agazi » continuò Kynval, impietoso. « Tu hai fornito agli Armaioli le condizioni per poterti sfruttare come capro espiatorio, mettendo in gabbia tutta la tua stirpe. Tu hai poi preso il libro da Florian e lo hai usato per far fuggire gli Agazi dal Khalak. Tu sei l’unica Armaiola esistente a non esser collusa con quell’Ordine degenere. Per sfortuna o per volere del destino tu sei al centro di tutto questo immenso pasticcio, per cui la domanda è: sei pronta ad assumerti le tue responsabilità, o fuggirai verso Cleycourt? Farai la Agazi e proteggerai la tua famiglia o ti comporterai come una volgare ladruncola? »
    Bradamante rimase in silenzio qualche secondo.
    « E se dovessi fallire? » domandò con un filo di voce.
    « Allora la nostra anima, quella di tutti gli Agazi, e anche quella di decine di milioni di persone, brucerà per sempre tra le fiamme della Gehenna. »
    Bradamante fece un passo indietro.
    Sospirò.
    « Ma questo è contrario al credo degli Agazi » disse, abbassando lo sguardo. « Voi siete l’Imperatore. Non siete un’autorità, ma l’Autorità. »
    « E voi rifuggite qualsiasi autorità che non sia Padre Massimiliano Agazi, dico bene? » domandò lui, sorridendo.
    Bradamante strabuzzò gli occhi.
    « Conoscete mio nonno? » domandò lei.
    « Non sapevo fosse tuo nonno » replicò lui, grattandosi il pizzetto genuinamente sorpreso.
    Bradamante restò lì per qualche secondo con la bocca aperta.
    « Accidenti. » disse non appena si riscosse.
    A Kynval scappò una risata.
    Abbassò la spada.
    « In ogni caso, Bradamante, non è a me che devi dar una mano » le disse, sospirando. « Io non sono l’Impero, e l’Impero non è nemmeno una bandiera cremisi con un dragone al centro. Tutti noi siamo l’Impero: tu, io, Helena, tuo Nonno, tutti i tuoi parenti Agazi, tutti coloro che abitano al sicuro dietro le mura di questa città, tutti coloro che navigano il Mar Blu, tutti coloro che qui vivono e prosperano. Tutti coloro che abitano queste terre, dall’estremo del Grande Deserto fino alle Montagne del Thiamar, senza nessuna eccezione, sono l’Impero. Ed io, l’Imperatore, sono il loro nonno Massimiliano: a me spetta il compito di proteggerli e guidarli. È a tutti loro che stai dando una mano. »
    Bradamante sospirò.
    Rimase in silenzio, guardandosi intorno.
    Una folata di vento fece ondeggiare le foglie degli alberi e le due code della giubba rossa di Kynval.
    La Agazi tirò fuori la spada e iniziò ad osservarne il fornimento, rigirandoselo tra le mani.
    Sospirò.
    Kynval la vide mordersi le labbra, mentre iniziava a spostare il proprio peso da un piede all’altro.
    Bradamante lanciò uno sguardo verso il punto in cui dovevano esserci tatuate le due chiavi incrociate, ora coperte da una camicia bianca.
    « Dubito che un Agazi si sentirà mai parte dell’Impero, ma… »
    Rimase nuovamente in silenzio.
    Sbuffò.
    « Farò tutto quel che posso » disse infine, con un filo di voce.
    « Brava ragazza » replicò lui, sorridendo. « Ora mostrami cosa hai imparato da Grazyn e Yichudim. »
    « Sì! » esclamò Bradamante.
    Sfoderò la lucente spada lunga dal fodero, impugnandola con entrambe le mani di fronte a se, e si piazzò in guardia con le gambe divaricate.
    Kynval poggiò la mano sinistra sul fianco, e distese il braccio opposto verso l’avversaria.
    Bradamante sollevò la spada e si mosse in avanti tentando un fendente.
    Kynval si limitò a far un passo, tenendo il braccio disteso.
    Bradamante si fermò, con l’arma sollevata verso il cielo e la punta della spada da lato di Kynval a sfiorarle naso.
    « Morta » disse lui.
    « Come!? » esclamò lei. « Ma che…!? »
    Kynval sorrise.
    « Hai scoperto il corpo » le spiegò. « Cerca sempre di scostare la spada di un avversario dal centro del campo, altrimenti rischi di infilzarti da sola. Avanti riprova. »
    Bradamante face un passo indietro, si rimise in guardia e tentò un tondo verso la lama avversaria.
    Kynval fece un passo indietro.
    Parò il colpo e inarcò la schiena scansandone un altro.
    Contrattaccò puntando al torace della donna.
    Bradamante deviò l’affondo e scattò indietro.
    Menò un tondo.
    Kynval parò il colpo e scattò in avanti con la mano sinistra sotto al fendente che ne seguì, afferrando l’elsa della spada di Bradamante e strappandogliela di mano in una piroetta.
    La donna ruzzolò in avanti, finendo con la faccia nell’erba.
    « Tutto a posto? » le domandò, avvicinandosi.
    « Sì! » esclamò lei, tirandosi in piedi. « L’erba è così morbida! Altro che il pavimento della Sala d’Armi! »
    Kynval ridacchiò.
    Le porse la spada e lei si rimise in guardia.
    « Te la stai cavando bene » disse lui, facendo tre passi indietro.
    « Ma se mi avete uccisa una volta e atterrata un’altra » replicò lei, mulinando la spada lunga in un ennesimo tondo.
    Kynval parò.
    « Non perché tu non sia stata brava » disse, piroettando e facendo tre rapidi passi indietro. « Semplicemente perché non sei abituata a confrontarti con il mio stile di combattimento. »
    Bradamante gli corse dietro.
    Kynval puntò la spada in avanti ma questa volta Bradamante si fermò, rimettendosi in guardia.
    « Vedi? Stai iniziando a capire » continuò lui, roteando la spada dietro la schiena e attaccando in ridoppio.
    La lama della spada da lato passò sotto la guardia della donna e le sfiorò il fianco.
    Si fermarono.
    « In un combattimento non è solo importante conoscere bene il proprio stile » le spiegò. « La conoscenza è potere. Bisogna anche conoscere bene l’avversario che hai di fronte. E questa è una legge universale, applicabile a qualsiasi confronto fisico, verbale o spirituale. »
    « Spirituale? » domandò Bradamante, con tono perplesso.
    « Specialmente spirituale » replicò lui, marcando le parole. « Non puoi affrontare un Mago se non sai che incantesimo ti sta scagliando e non puoi affrontare un Drago se non sai con quale arma sfondare le sue scaglie e raggiungerne la carne. »
    « E qual è l’arma più adatta a sfondare le scaglie di un drago? » chiese la Agazi, incuriosita.
    Kynval sorrise.
    Si voltò verso la piccola casetta di legno coperta di edera che c’era al limitare sella radura, e le fece cenno di seguirlo.
    « Dipende dal Drago » spiegò. « Ad esempio: per i Draghi Rossi, che hanno le scaglie piuttosto morbide, va bene una qualunque spada lunga. Per i Draghi delle Rocce o di Montagna serve qualcosa che possa concentrare grande forza in un unico piccolo punto, come una lunga mazzapicchio oppure… »
    Aprì la porta del capanno e ne trasse una grossa falce da fieno, dalla lama in ferro grezzo e il lungo manico lievemente arcuato.
    « Voi state scherzando! » esclamò la Agazi, vedendo Kynval che prendeva a far ruotare attorno al corpo il grosso attrezzo agricolo.
    « Nemmeno per sogno! » replicò lui, puntando l’asta della falce a terra e fermandosi. « Questa è l’arma principe di ogni Ammazzadraghi che si rispetti: la Falce è capace, con un colpo portato di punta e sfruttando il lungo manico come leva, di sfondare qualsiasi scaglia di drago. Qualsiasi. »
    « Ecco perché durante i miei viaggi ho visto molti cacciatori della Gilda portarne una in spalla... » constatò Bradamante, portandosi la mano al mento.
    Kynval ridacchio.
    « Esatto » disse. « Si possono trovare in qualsiasi stalla o capanno di attrezzi, e sono letali. Praticamente ogni cacciatore che si rispetti impara ad usarle, se non come prima arma sicuramente come seconda. »
    Kynval poggiò la lama a terra.
    « Basta poggiarla sotto il collo di una bestia e… »
    Diede un violento strattone verso l’alto.
    « Addio testa » commentò la Agazi. « Ma dubito che un drago stia lì fermo ad aspettare mentre gli poni la lama di una falce sotto il collo. »
    « Certamente no » le disse, sorridendo.
    Tornarono al centro della radura.
    « Si vociferava che prima di diventare sovrano foste stato un ammazzadraghi » disse Bradamante, riponendo la spada nel fodero. « Quanti draghi avete ucciso? »
    « Due » rispose lui. Sedendosi sul tronco tagliato e prendendo a far scorrere lentamente le dita sul piatto della lama.
    « Soltanto? » domandò Bradamante, sorpresa. « Sapevo che durante l’Invasione dei Draghi ne erano stati abbattuti a decine dai cacciatori e dai soldati archadiani. »
    « Sì, ed io stesso ne ho ammonticchiato un buon numero, ma quelle erano solo viverne » rispose lui, sorridendo. « Draghi artificiali, creati con l’Alchimia. Un vero drago non si può abbattere semplicemente a colpi di balista. »
    « Perché mai? » domandò lei, osservando una cascata di scintille cadere dalla lama che si affilava ad ogni passaggio del dito.
    « Tanto per cominciare le viverne hanno solo due zampe e un paio di ali, quindi a terra fanno molta fatica a muoversi, e poi hanno la pelle morbida: basta una freccia per ferirle » le rispose. « Un drago ha la pelle più coriacea, e quattro zampe oltre alle ali. Quindi risulta pericoloso anche dopo esser stato abbattuto. Per uccidere un drago vero si organizzano battute di settimane a cui partecipano gruppi interi di cacciatori chiamati “Clan”. Non è cosa facile: bisogna studiare il comportamento della bestia, preparare con cura un agguato e poi colpire. Quando i draghi si librano in volo è necessario tarpar loro le ali, tirando arpioni uncinati per costringerli a terra. Poi bisogna ferirli, per impedirgli di uccidere i cacciatori che gli si avvicinano: di solito si accecano, si immobilizzano, gli si spezzano le ossa delle zampe e gli si tappa la bocca per impedirgli di soffiare. A quel punto un cacciatore deve saltargli in groppa e finirlo. Idealmente con un colpo di falce dritto qui… »
    Kynval si puntò il dito appena sotto la nuca.
    Bradamante intanto lo osservava con un’espressione inorridita.
    « Non ho mai detto che fosse un lavoro facile e pulito » rise infine lui, poggiando sul tronco la falce affilata.
    « E quello che avete intenzione di fare con gli Armaioli lo sarà invece? » domandò la Agazi, poggiandosi la mano sul fianco.
    « Se reciterai bene la tua parte lo sarà. »
    « Avete intenzione di arrestarli? »
    « Sì » rispose lui. « E per il loro bene rinchiuderli dove non potranno far danni a loro stessi e agli altri. »
    « Per quanto? »
    « Per il tempo necessario. »
    Si tirò in piedi.
    « Il piano è semplice: getterò sul tavolo del Conclave le accuse verso gli Armaioli. Si alzerà un vespaio senza precedenti. Tu entrerai in scena al culmine del dibattito. » le spiegò.
    « E cosa dovrò fare a quel punto? » chiese Bradamante.
    « Dovrai tornare ad essere l’Armaiola che guidò la rivolta al Campo del Khalak » rispose Kynval. « Ci saranno dei testimoni che ti identificheranno chiaramente come tale. A quel punto nessuno potrà negare l’evidenza e l’Ordine sarà accusato di Alto Tradimento e Attentato alla Sicurezza dello Stato. »
    « E una volta che il Conclave sarà finito cosa dovrei fare? » incalzò la Agazi.
    « A quel punto ti faremo sparire » spiegò lui. « Basterà che tu inizi a raderti con frequenza e tingi i capelli di un colore diverso. Penserò poi io a tenerti al sicuro, come già sto facendo con Florian e Angelica, fino a quando voi Agazi non riceverete la Grazia e potrete tornare liberi. »
    « E quanto ci vorrà prima che ci rendiate la libertà? »
    « Molto temo » rispose. « Tutto questo sarà la scintilla che darà inizio ad una guerra. Avrò bisogno del tuo aiuto, in quanto Armaiola. »
    Bradamante sospirò.
    « Capisco » disse. « Ma temo di non poter far molto per aiutare. Sono un’Armaiola, ma non ho nulla su cui poter “armeggiare”, e nemmeno un posto dove poterlo fare. »
    Kynval si grattò il pizzetto.
    « Per questo non c’è problema » replicò, sorridendo. « Ho io il posto adatto per te… »
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    Da lingue di fuoco e carboni ardenti, un uomo delle dimensioni di un bambino, servendosi di una lunga pinza, estrasse un ferro rovente, di un colore accecante, simile a lava fusa.
    Con molta attenzione, il nano poggiò il metallo sull’incudine, prese un martello tra la catasta di attrezzi sistemati accanto alla fucina e cominciò a batterlo con forza.
    Gocce di sudore colavano dalla sua fronte ogni volta che sollevava il tozzo braccio e il martello cozzava sul ferro; il viso era una maschera di fuoco, scolpita, solcata da profonde cicatrici; lo sguardo impresso sul metallo che tra un colpo e l’altro, si assottigliava e cambiava colore.
    Quando si ritenne soddisfatto gettò il metallo in una tinozza, che a contatto con l’acqua sbuffò, sollevando un’ondata di vapore.
    «È raro vedere una donna da queste parti.» disse, ripescando con la pinza il metallo immerso nel liquido «Questo non è chiaramente l’ambiente adatto a loro.»
    «Beh… c’è sempre una prima volta.» rispose Virginia, asciugandosi il sudore sulla sua fronte con la manica della camicia.
    «Vero, ora dimmi per quale motivo sei qui, che non ho tempo da perdere.» esclamò il nano gettando il ferro in una cesta colma di altri pezzi simili.
    «Cerco un’arma.»
    «Bene, non sarà una perdita di tempo.» rispose, riponendo il martello e la pinza, levandosi il grembiule e i guanti di cuoio «Vediamo se riusciamo a trovare qualcosa di tuo piacimento.»
    Virginia seguì il fabbro, muoversi verso una porta in legno in massello, a destra della fucina, frugando nella tasca dei calzoni; l’uomo le arrivava alla vita, e mentre distendeva il braccio destro, per infilare una chiave color bronzo nella serratura, sembrava ancora più piccolo, ma per essere un nano aveva il suo fascino, con i lunghi capelli castani, raccolti in un codino, e la benda nera, legata alla nuca da un lungo filo, sull’occhio destro.
    L’uomo girò la chiave e la porta s’aprì; la spalancò, spingendola con entrambe le braccia.
    Il rumore dei cardini cigolanti destò Virginia dai suoi pensieri.
    Innanzi a lei, armi bianche di dimensioni, tipologia e metalli diversi, erano ordinatamente affisse alle pareti di pietra tramite rastrelliere in ferro; i materiali di cui erano composte scintillavano alla luce delle torce, le lame che parevano intaccate, splendide come il giorno in cui erano state forgiate.
    Tra le molte presenti, Virginia riconobbe falcioni, spade da lato, mazze, picche e alabarde, ma la sua attenzione ricadde su un pugnale lungo poco più di sette pollici, dalla lama d’acciaio, sottile e acuminata; la guardia corta e tondeggiante gli donava una certa eleganza, assieme all’impugnatura, che presentava incisioni lungo l’intera superficie e terminava con il pomolo dalla forma sferica.
    «Non avrei mai immaginato di trovare qualcosa di simile» esclamò Virginia, avvicinandosi alla parete sulla quale era affissa l’arma «Conosco bene la fama che ha acquisito negli ultimi secoli ma è proprio questa sua caratteristica a renderla interessante.»
    «Allora saprai che lo stiletto è il pugnale preferito dagli assassini per via della lama sottile, che può insinuarsi ovunque, e della facilità di occultamento. Controllala pure, credo non rimarrai delusa.» le disse il fabbro.
    Virginia non si fece attendere e sfilò l’arma bianca dalla rastrelliera.
    “È sorprendentemente leggera ma ben bilanciata e resistente al tatto.” pensò, rigirandola fra le mani, lanciandola in aria e riprendendola per il manico prima che potesse toccare terra.
    Delicatamente passò il pollice della mano destra, verticalmente alla lama e su entrambi i lati, per controllarne il filo.
    “Uhm… vediamo ciò che sei in grado di fare.” commentò tra sé e sé, sorridendo bellamente.
    Sollevò il braccio piegandolo ad altezza della testa, la presa salda sull’impugnatura d’acciaio, e con un rapido movimento lanciò l’arma; il pugnale pervaso da scintille viaggiò per un paio di iarde, compiendo una rotazione completa prima di colpire la parete di destra, spezzandosi in due sotto lo sguardo deluso di Virginia.
    «Che diavolo ti è saltato in testa!» urlò il fabbro, il suo unico occhio spalancato dall'orrore cui aveva assistito.
    «Sembrava un’ottima arma e dovevo provarla, purtroppo non era adatta alle mie capacità.» commentò la donna recuperando ciò che rimaneva del pugnale: la lama era irrimediabilmente danneggiata, scheggiata in più punti e contornata da strani aloni scuri, simili a bruciature.
    “L’acciaio di cui è fatto non deve aver retto all’infusione del mio potere” pensò, alzandosi da terra e consegnando al fabbro l’arma spezzata “Ma ho già trovato una soluzione.”
    «Devo ammettere che quel pugnale mi piaceva, per questo vorrei commissionartene tre dello stesso tipo» disse Virgilia tirando fuori la sacca con quel poco di conio rimastole, ottenuto dalla vendita del corpetto «Ovviamente pagherò pure quello rotto.»
    Il nano accettò di buon grado le due monete d’oro come risarcimento e prontamente le infilò nella tasca dei calzoni, sogghignando dietro la folta barba castana.
    «Non posso certo tirarmi indietro, sempre che non ti venga in mente di lanciarli contro un muro per testarne la resistenza: è un colpo al cuore vedere la propria opera distrutta in quel modo.» rispose il fabbro mentre uscivano dall'armeria.
    «Non posso assicuratelo: è il mio stile.» esclamò Virginia, sollevando le braccia a mo’ di scusa.
    «Comunque, quanto ci vorrà per vedere i miei pugnali ultimati?»
    «Almeno un mese, dato la mole di lavoro che mi ritrovo.» le spiegò l’uomo.
    “È tanto ma almeno avrò il tempo di racimolare i dragoni necessari.” pensò, grattandosi la nuca.
    Virginia raggiunse la porta d’ingresso e l’aprì; l’aria fresca proveniente dall’esterno le punse la pelle, una bella sensazione dopo tutto il tempo passato succube del calore della fucina.
    «Ah, c’è un’ultima richiesta che vorrei farti.» esclamò Virginia, soffermandosi sull’uscio della bottega.
    «Fai pure.» le rispose gentilmente l’uomo.
    «Quel pugnale era fatto interamente d’acciaio, persino l’impugnatura, o sbaglio?»
    «Non sbagli.»
    «Ebbene, vorrei che i miei fossero fatti con un metallo diverso: il rame.»

    Sulla strada di ritorno alla locanda Virginia si fermò a una bancarella molto simile a quella dove aveva ottenuto i vestiti attuali, con tanti abiti e stoffe gettati alla rinfusa sul carretto di legno; erano di colori e materiali diversi, come lana e cotone, coperti da un velo di polvere che con molta probabilità, al soffiare del vento, s’era sollevato dalla strada sterrata.
    «Desideri qualcosa?» domandò una voce dall’altra parte del carretto.
    Virginia alzò lo sguardo oltre la catasta di abiti e vide una donna sulla trentina, con i capelli color amaranto, divisi in due trecce, gli occhi celesti e il viso di un bianco pallido, puntellato di lentiggini; teneva le braccia conserte, probabilmente in attesa di clienti.
    «No stavo solo curiosando, tutto qui.» rispose con tono quasi infastidito.
    Stava per tornare sui propri passi quando le venne in mente un’idea.
    «Mi scusi ma mi chiedevo se faceste anche indumenti in cuoio.» domandò Virginia, voltandosi verso la donna oltre il carretto che presa alla sprovvista, impiegò un po’ prima di risponderle.
    «Non ci sarebbe nessun problema ma un abito su commissione verrebbe a costare di più.»
    «I soldi non mi mancano» mentì lei, toccando inconsapevolmente la tasca contente la sacca mezza vuota «Quindi se le dico ciò che desidero, può farmelo?»
    «Certo, e se è qualcosa di semplice posso farglielo avere entro fine giornata.» esclamò tutta contenta, lasciando trasparire la noia che fino a quel momento l’aveva accompagnata.
    «Non ho fretta, quel che m’importa è che possa soddisfare la mia richiesta.
    «Comunque ciò a cui pensavo non era proprio un indumento ma un fodero di cuoio lungo una decina di pollici, da avvolgere alla gamba, dove poter inserire tre o più coltelli» disse Virginia, mimando le dimensioni dell’oggetto che voleva veder realizzato sotto lo sguardo confuso della donna «Sono stata chiara?»
    «Sì, credo di aver capito e non dovrebbe essere troppo difficile» rispose la donna, prendendo da un borsello di cuoio una forbice assieme a un lungo nastro rosso «Scusami, ma se vuoi legarlo alla gamba allora devo prenderti le misure.»
    Senza farsi troppi problemi Virginia poggiò il piede sul carretto e sollevò la gonna fino alla coscia mentre la donna misurava la sua circonferenza; quando ebbe finito tagliò il nastro nel punto in cui il tessuto era fermato dal pollice.
    «Alloggio alla locanda “Nottesferza” ma non starò lì ancora molto» disse Virginia poggiando il piede a terra «Mi farò vedere io tra un mese, quando sarò certa che tutto sarà pronto.»
    «E nel caso avessi qualche difficoltà, come posso contattarti?»
    «Non ce ne sarà bisogno: mi fido del tuo giudizio.» rispose, sorridendo alla donna.
    “Sono cambiata.” pensò mentre il carretto si faceva sempre più distante e la strada lastricata lentamente sostituiva quella sterrata; la gente aumentò di numero così come la cacofonia di suoni che riempiva le strade della capitale.
    “Un tempo non mi sarei mai aperta in quel modo a uno sconosciuto anzi, l’avrei trattato con freddezza quasi a farmi disprezzare; per non parlare del bel rapporto che ho instaurato con le persone che ho incontrato in questi ultimi mesi.”
    Un gattino dal pelo arruffato, bianco e marrone, sbucò da un cunicolo; era talmente magro che potevano scorgersi le costole mentre annusava una fessura nel muro, in cerca di cibo, la coda abbassata segno che non c’era nulla che potesse sfamarlo.
    “Essere tornata all’età di dieci anni mi ha permesso di rivivere una vita diversa, in certi casi migliore se escludo tutto ciò che riguarda Maxwell.” pensò Virginia, chinandosi verso il povero gatto, decisa ad accarezzarlo.
    «Forse non tutto il male viene per nuocere.» disse alzando lo sguardo al cielo, dove un’insegna di legno, raffigurante una notte stellata rotta dalla scia di una cometa, capeggiava al di sopra dell’entrata della locanda.

    Non appena varcò la soglia della sua stanza Virginia sistemò il micio sul letto e si diresse verso il tavolo sul quale era poggiato il libro di Maxwell. L’aprì e dopo averci versato sopra gli ultimi grammi di polvere nera rimastole, le parole tornarono a riempire le pagine non più bianche quasi fossero fresche di stampa ma frastagliate e ingiallite dal tempo.
    Gettò via la sacca ormai vuota, preparò il foglio su cui appuntare gli eventi cardine, e riprese a leggere dal punto in cui si era fermata, ancora una volta sperando fosse l’ultima.

    Il giorno che seguì il muto addio pioveva. Gocce d’acqua cadevano dal cielo plumbeo bagnando Keeran Maxwell. I lunghi capelli dorati attaccati al suo viso brillavano alla luce dei lampi e delle folgori che flagellavano la rorida terra, sollevando nugoli di polvere.
    Egli contempla la tempesta con lo sguardo verso l’alto; le braccia aperte come ad accogliere la pioggia che batteva forte, ininterrotta, sulla sua pelle eburnea e sul torace nudo, scolpito, eppure non lo tangeva minimamente. Era talmente immerso nei suoi pensieri, la mente persa in chissà quale mondo onirico, che nulla l’avrebbe ostacolato, allontanato dal suo desiderio più recondito, ossia veder Kiera Maxwell soffrire.
    Colla tempesta che non s’accingeva a placare bensì accentuava ogni sua caratteristica, tanto che chicchi di grandine grandi come mele cominciarono a cadere, Keeran Maxwell giunse infine all’agognata conclusione: arrivò come le rondini che in primavera tornano al nord, o la neve che d’inverno imbianca le vette delle montagne, e per la prima volta si mosse.
    Bastò il movimento d’un singolo dito e la tempesta si zittì, i tuoni e i fulmini cessarono, la pioggia e la grandine smisero di cadere e la coltre di nubi lasciò spazio a un magnifico cielo stellato dominato dal bianco sorriso della luna.
    «Erigerò una fortezza, inespugnabile, e lì rinchiuderò mia sorella, cosicché non potrà più restare assieme all’uomo che ama.» urlò, e nulla l’avrebbe ostacolato.
    Un dì era passato e Maxwell era già al lavoro; instancabile, col solo battito delle mani da solida pietra nascevano blocchi coi quali costruire le facciate e le mura della fortezza. Li muoveva agitando le braccia come un direttore d’orchestra fa colla sua banda e questi s’impilavano uno ad uno fino a toccare il cielo. Non c’era bisogno né di calce o di qualsiasi altro materiale che facesse da collante, poiché i blocchi lì rimanevano e da lì non si sarebbero mai mossi.
    Colla mano a mo’ di lancia gli alberi si prostravano al suo volere; perdevano foglie, fiori, rami e corteccia; abbandonavano l’amata terra da cui erano nati per servire un unico uomo.
    Con essi Maxwell rivestì i pavimenti degli interni, creò mobili, tavoli e sedie, poiché voleva che la fortezza fosse perfetta, che non vi mancasse nulla affinché Kiera vivesse più a lungo.
    Da una cava tra le montagne che del ferro avevano il colore egli estrasse l’omonimo materiale assieme a tanti altri: li fuse assieme per dar vita a metalli mai visti fino allora, e con essi rese tale la fortezza inespugnabile.
    A un suo richiamo, dal colle fantasma celato tra le lande nebbiose della piana d’oro, giunsero nitrendo e sbuffando, cavalli alati; il cielo si riempì di un bianco immacolato tale era il manto di quegli splendidi animali dalle ali d’angelo.
    Laddove le forze venivano meno, egli si serviva dei cavalli per trasportare tronchi, massi e metalli: era trascorso un solo mese dal muto addio ma già sentiva i propri poteri scemare, ma non si crucciava se dopo i lavori estenuanti il suo volere si sarebbe fatto volontà.


    Virginia stoppò momentaneamente la lettura, udendo il rumore sommesso della porta che s’apriva, lo spostamento d’aria da essa prodotto che arrivò leggero fino a sfiorarle la schiena.
    Per un attimo pensò di voltarsi e togliere ogni dubbio ma poiché la sua capacità di percepire i segnali emessi dal cervello umano era più che sufficiente, mantenne lo sguardo fisso sulle pagine del libro in attesa che lo sconosciuto facesse la sua mossa.
    Passarono alcuni minuti e Virginia non avvertì nessun movimento, né dello sconosciuto né della porta nel caso se ne fosse andato.
    “Che mi sia sbagliata?” pensò, girando la pagina nonostante non avesse letto nemmeno una riga “No, lo sento chiaramente e se è quel lucertolone invisibile non posso farmelo scappare.”
    Attese ancora ma quando capì che nulla sarebbe cambiato, si decise ad agire: concentrò parte della sua energia nella mano sinistra, un globo luminoso brillò nel palmo e voltandosi di scatto generò una saetta che esplose al primo contatto con l’estraneo.
    «Non preoccuparti: non sarà una piccola esplosione a farti… »
    Virginia si fermò di colpo quando vide la figlia del locandiere con la scopa sollevata, le setole di saggina che bruciavano generando un denso fumo grigio che si diffondeva in tutta la stanza.
    «Dimmi cosa ne hai fatto di Virginia!» esclamò Carla cercando invano di mantenere una certa spavalderia nonostante la scopa continuasse a bruciare «Altrimenti io… »
    «Altrimenti cosa? Potrò anche decidere per conto mio di cosa farne di mia sorella dopo che è fuggita di casa in barba all’uomo cui era destinata.» esclamò Virginia, avanzando decisa verso la donna, arrivando a sfiorarle il viso con sguardo minaccioso.
    «Sorella?» farfugliò Carla perdendo la presa sulla scopa.
    Virginia corse verso il letto per prendere una coperta e sopprimere le fiamme che lentamente stavano divampando sul pavimento.
    «Esatto: sorella» rispose quando le fiamme erano ormai estinte «In questo momento Virginia è sulla via per casa e come sua responsabile, devo rimediare ai guai che ha combinato, ha persino fatto visita all’Imperatore per chiedere asilo.»
    «Infatti, le somigli molto, ma io non l’ho più vista dalla notte scorsa. È come se fosse sparita.» farfugliò la donna.
    «Non potevamo attirare l’attenzione altrimenti sarebbe fuggita per l’ennesima volta» rispose Virginia, soppesando attentamente le parole da rivolgerle «Ora, se non l’hai ancora capito, mi devo preparare in vista dell’incontro con l’Imperatore.»
    Carla annuì con un gesto del capo, nonostante avesse ancora qualche dubbio dipinto sul volto; recuperò ciò che rimaneva della scopa e uscì dalla stanza.
    “È andata bene.” pensò, sospirando dal sollievo.
    Ricordandosi del gatto che aveva raccolto dalla strada, controllò dove si fosse nascosto, probabilmente spaventato dal suo attacco magico; lo trovò sotto al letto, ridotto a un batuffolo tremolante con gli occhi chiusi.
    Provò a prenderlo, allungando il braccio sotto al cassone di legno, ma il micio arretrava ogni volta che le dita arrivavano a sfiorarlo.
    “Uscirà quando avrà fame.” pensò, alzandosi da terra e tornando a sedersi al tavolo.
    Sulla pagina che aveva voltato precedentemente, senza nemmeno leggerla, era raffigurata una torre fortificata, talmente alta che la vetta era avvolta dalle nuvole.
    Non c’era nulla di rilevante in quella torre; era una struttura verticale dalla forma tonda, priva di elementi decorativi, costruita con semplice pietra e nient’altro, ma ora che era arrivata al culmine della storia, Virginia sapeva di non dover tralasciare nessun dettaglio.
    Si lasciò alle spalle la raffigurazione della torre e riprese la lettura.

    Trecentosessantacinque giorni e la fortezza giunse infine a conclusione; s’estendeva imponente tra il lato della montagna e le fronde degli alberi: faggi, pini e castagni che riempivano la terra. Era immensa, pura nella sua pietra grigia; una cinta muraria ne proteggeva il cuore pulsante, un quadrato, con torrioni a ogni angolo, e la torre fortificata, per altezza l’unica regina, che dal centro svettava verso il cielo, tanto che la cima era impossibile scorgerla dal suolo.
    Ma era l’interno il fiore all’occhiello: vi erano quadri affissi alle pareti, raffiguranti i paesaggi circostanti; arazzi, bianchi e d’oro; tappeti nei corridoi e nelle stanze, assieme a mobili di legno intarsiato, porcellane, statue in marmo e piante ornamentali. Il salone principale era un tripudio di sfarzo e magnificenza, coll’enorme tavolo che primeggiava nel centro, abbellito da tovaglie rosse e dorate, candelabri argentati e fiori nei vasi; sul fondo della sala c’era un camino, dove un fuoco ardeva ininterrottamente, talmente grande che un uomo in piedi poteva starci dentro.
    Keeran Maxwell giaceva innanzi al suo capolavoro assoluto, che primeggiava sopra ogni altra cosa; ansimava e rialzarsi gli provocava un gran dolore; ma non si disperava bensì rideva poiché ben presto lì vi avrebbe segregato Kiera e il suo desiderio di vendetta sarebbe giunto all’apogeo massimo.


    Virginia batté il pugno sul tavolo con tanta forza che l’intera struttura tremò; la penna d’oca rotolò a terra, i fogli volarono via e il calamaio si ruppe, riversando tutto il suo contenuto sul legno e su parte della rilegatura del libro.
    Sollevò il braccio destro pervaso da scintille, rivelando il solco tondeggiante che s’era formato a seguito del colpo, le crepe tutt’attorno che si snodavano come radici di un albero.
    “Calma.” si disse, cercando di sbollire la rabbia, ma al pensiero di aver finito la polvere da sparo e aver perso tempo con quella stupida di Carla, questa non faceva che aumentare.
    “Ora so della fortezza e ho raccolto abbastanza dettagli da avere un quadro completo.” pensò, guardandosi la mano stretta in un pugno, e la rabbia, poco alla volta, scemò.
    Virginia allontanò ogni cattivo pensiero dalla mente e raccolse da terra la penna d’oca e i fogli di carta; finì di scrivere gli eventi importanti di cui aveva letto, descrivendo accuratamente la fortezza, con l’inchiostro che era riuscita a recuperare. Quando fu asciutto mise il foglio tra le prime pagine della Bibbia e la chiuse.
    Sistemò il casino che aveva combinato asciugando l’inchiostro versato con uno dei sacchi di iuta ma per il solco sul tavolo non c’era nulla che poteva fare: avrebbe ripagato anche quello.
    Corrucciata si avvicinò al letto dove il micio dormiva, acciambellato sopra al cuscino.
    Si sedette accanto e cominciò ad accarezzargli il pelo, sentendo subito le costole sotto la pelle e provando un gran dispiacere.
    «Povero micio, ti porterò su qualcosa dalla cena di stasera. D’ora in poi non dovrai più preoccuparti di cercati il cibo.» disse, grattandogli dietro l’orecchio destro.
    Virginia alzò lo sguardo, osservò la finestra e i raggi del sole morente che filtravano da essa, riflettendosi sul pavimento di legno.
    “Ormai è troppo tardi per fare visita all’Imperatore e non ho la fretta dell’ultima volta” pensò, alzandosi e chiudendo le imposte “Ma domani sarà un altro giorno.”
     
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