Fuochi della Gehenna

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    Hastatus

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    Lecher si chiuse in un silenzio sempre più ostinato nei giorni che seguirono.
    Era come se la Gehenna le avesse portato via tutta la voglia di parlare e perfino il tempo per pensare o ricordare. Nel Brahnemuth aveva la possibilità di fermarsi, ponderare le cose, contemplare un paesaggio sereno, un’aiola fiorita, un’alba rosata invece che rossa, macchie di sugo in cucine non imbrattate di sangue.
    L’elettricità dell’idea della Gehenna, invece, le aveva fatto passare il desiderio di chiacchierare. E di momenti statici in cui riproporre alla propria mente sguinci di carne nuda, i sei Rapaci su di lei, Hashashin dagli occhi cerulei e i capelli corvini, Alexander dal naso aquilino (i setti nasali più pronunciati zampillano più sangue di quelli normali?) non erano molti.
    Lecher si sentiva costantemente pervasa dal senso di catastrofe e dall’esaltazione in vista della prossima vendetta, alternativamente. D’altronde si stavano rapidamente avvicinando al Ponte del Diavolo e lo scadere delle due settimane dall’episodio di Copycat si approssimava.
    Sarebbero stati, tutti i Rapaci rimanenti, lì. Tutti lì. I quattro dell’Apocalisse.
    David, Sister, Alexander e Hashashin.
    Lei, i Sayf Udeen e i sei mercenari di Iudistira erano in undici. Già la superiorità numerica prometteva grasse risate, ma Lecher constatò che gli uomini prezzolati dell’Aydan (un nomignolo con cui non lo chiamava per quieto vivere, ma che a lei dava il gusto dell’irriverenza) non erano esattamente una garanzia di qualità. Si ricordò con rammarico il primo mercenario che aveva conosciuto, durante l’ultimo attentato a Rasha in casa sua; era morto praticamente subito e nel modo più stupido possibile.
    - Ho sete… - si lamentò Maki, la mazza chiodata che pendeva dalla cintura, inerte come gli stracci che gli si stavano consumando addosso e che ormai gli stavano larghi. La sua pelle brunita era imperlata di sudore luccicante al sole, alto nel cielo, gli occhi scuri erano spenti, le spalle ciondoloni.
    - Resistete – ringhiò Iudistira, digrignando i denti bianchi e stritolando i pugni.
    Lecher continuò, impassibile. Non avvertiva nemmeno il debole pungere del retro della gola, solo una lieve secchezza alle labbra, nulla che non potesse gestire per altre ore.
    Continuarono a marciare, la sabbia che si sollevava in piccole volute rotonde sul suolo, crepe enormi sulla strada, una staccionata divelta sulla sinistra, ingranaggi, ruote, tubi, pezzi di metallo alla rinfusa sulla destra.
    - Non ce la facciamo più! Sono dodici ore che non beviamo!
    - Prendete il burro di datteri che ci siamo portati dal Brahnemuth. Quello vi placherà.
    - Ho bisogno di qualcosa di liquido! Non di una pasta dolce! – ribatté un altro mercenario di Iudistira.
    - Il burro di datteri vi permette di non avere sete per un bel po’ di ore. Sarebbe bene che lo mangiate. O preferite innervosirmi? – replicò Iudistira.
    Lecher sorrise a bocca chiusa, di un ghigno sghembo: apprezzava molto quel modo di essere autoritario coi propri sottoposti dell’aquilotto. Le faceva ricordare Hashashin.
    A suo modo, ci somigliava: aveva solo la pelle molto più diafana e i muscoli molto più scolpiti, anche se lei aveva come la sensazione che ben presto quei pettorali si sarebbero spompati, col nuovo regime alimentare.
    La strada si inclinò; una salita ripida celava l’orizzonte e il gruppo si ritrovò a metà dell’arrampicata con la lingua di fuori e gli occhi strabuzzati.
    Fu in quel momento che Maki si ammutinò:
    - Io mi rifiuto di continuare in queste condizioni!
    - E cosa avresti intenzione di fare? Sentiamo… - ribatté ironica Lecher. Si guardò intorno, dalla salita: solo terra brulla e arida, carcasse di antichi carri prebellici, metallici. La carcassa di un rattotalpa, i dentoni visibili anche a quella distanza, che avevano ucciso poco prima e da cui avevano tratto della carne. La strada antica, segnata da linee ondulate e crepe spezzate.
    Maki si guardò intorno, spostando il peso da un piede all’altro, fissando l’orizzonte, poi Lecher, poi Iudistira, poi toccandosi le labbra secche. Sconfitto nell’orgoglio, l’ammutinato riprese a salire.
    Dopo la gobba della strada, si aprì di fronte ai loro occhi uno spettacolo piuttosto invitante: un laghetto blu elettrico su cui si affacciava una casetta dal tetto diroccato; piccole volpi glabre bevevano e si allontanavano ondeggiando dalla pozza d’acqua; piccole cupolette di escrementi luminescenti punteggiavano i luoghi in ombra, dietro alla casa, sotto a un albero scuro e ritorto e morto; nell’acqua una starnazzante oca crestata si stava inseguendo con una simile, delle volte svanendo nelle profondità luminose, altre volte riemergendo e facendo brevi salti, due fuochi d’artificio sulla superficie.
    - Acqua! – urlarono i mercenari di Iudistira, che rotolarono giù dal pendio a perdifiato.
    - Aspettate! – comandò Lecher, ma non le dettero ascolto.
    Con un grugnito si lanciò all’inseguimento mulinando le gambe:
    - Non toccatela! L’acqua blu sbronza di brutto! Poi non sarete in grado di camminare!
    - Non me ne frega un cazzo! – rispose di rimando Sazo, alto e smilzo, guardandola feroce senza vedere dove poggiava i piedi durante la corsa verso la pozza – Ho troppa sete!
    - Se vi sbronzate vi uccido con le mie stesse mani! – strillò Iudistira, veemente.
    - Come cazzo facciamo ad andare avanti se non vi reggete in piedi?! – urlò anche Lecher, ma i mercenari non li ascoltavano.
    Solo Shaki, con l’ascia di traverso sulla schiena, Maki, che dubitosamente era sulla riva, ma non toccava l’acqua, e Mika che era rimasto indietro e si era sentito folgorato dalle parole dure di Iudistira, la balestra che dondolava dopo la corsa sfrenata, si erano calmati. Gli altri tre, compreso Sazo, si erano tuffati a faccia avanti nel liquido color zaffiro, inondando i vestiti di luce propria, riemergendo simili a torce di fuoco blu.
    - Come passare inosservati… - disse, sarcastico, Rasha, mettendo una mano sulla spalla di Iudistira.
    A sorpresa, quello non gli scacciò via le dita:
    - Cosa devo fare con loro?
    - Cercare di essere meno indulgente sarebbe come dire a un sergente di Albione di regalare al plotone delle caramelle alla banana con un bacino sulla guancia.
    - Crepa.
    - Ho cercato di farlo per tanto tempo e finalmente inizio ad apprezzare la vita. Proprio in questo posto. Proprio in questo inferno -
    Sorrise sotto al turbante, con buona energia.
    Rasha si stava rimettendo, constatò Lecher.
    Al di sotto, però, di tutte quelle piacevoli primizie, qualcosa di inusitato increspò la serenità del momento. Qualcosa di sconosciuto. E probabilmente di pericoloso.
    Lecher lo avvertì con le narici.
    Era un odore acre. Come di sterco. Assieme all’odore del cuoio. Assieme ad un profumo dolciastro e muschiato. Qualcuno su una cavalcatura. In sella. E non era originario della Gehenna per avere quel profumo addosso.
    - Arriva una carovana! – esclamò Lecher. I mercenari, a trenta passi di distanza, non la udirono, presi a festeggiare l’addio alla sete e il benvenuto alla sbronza colossale.
    Iudistira la guardò perplesso, Rasha contrasse subito il delicato viso in un’espressione corrucciata. Il fruscio della veste di Duriodana giunse alle spalle di Lecher improvviso, come se avesse fatto due falcate rapide per raggiungerla:
    - Stanno arrivando! E non sono amichevoli! -
    Non si chiese neanche come Duriodana lo sapesse. Non si chiese in quale modo la mente al di sotto di quei capelli bronzei dalle punte ramate potesse captare il pericolo, il sopraggiungere di una bufera, l’approssimarsi dei fratelli. Semplicemente, seppe che lo sapeva. E sapeva anche che pure tutti gli altri fratelli lo avrebbero dato per scontato.
    - Chi sta arrivando? – chiese Iudistira, serrando le labbra e trattenendo il fiato.
    - Non posso capirlo! Non ci riesco! E ci sono solo poche cose di cui io non capisco l’entità… - rispose reticente Duriodana, un guizzo di paura subito placato all’interno dei suoi occhi che Lecher notò e di cui si spaventò.
    Se questa persona così impassibile si spaventa, dopo aver visto tante cose a lui aliene nella Gehenna, cosa cazzo ci sta piombando addosso?
    - Phaerie – completò il druido, la calma atarassica dovuta alla sua casta che era solo un’apparenza tremolante al di sotto della quale c’era un abisso di paura.
    Lecher scattò in avanti, prendendo per un braccio Iudistira, ancora attaccato a Rasha, in una catena umana che lei si portò appresso fino alla casa. Quasi lanciò l’Aydan dentro, un fruscio degli ormai corti capelli corvini che baluginò sotto il sole, subito prima di piombare nella penombra dell’edificio diroccato:
    - State fermi qui! – ringhiò Lecher – E anche voi due, muovetevi! – ordinò a Karish e Duriodana, che zampettarono più velocemente che potevano nelle lunghe vesti stracciate.
    Lei si diresse verso la riva del lago e urlò:
    - Stanno arrivando i Phaerie! Sono qui per noi e ci ammazzeranno se non vi mettete subito al riparo! -
    Shaki si voltò, la pelle color del caffè in tono con la fascia messa di traverso sulla schiena da cui pendeva l’ascia e gli occhi sgranati; afferrò le maniche di Maki, compiendo un giro completo su se stesso e trascinandolo via dall’acqua che non aveva bevuto; Mika stava già imboccando l’uscio della casa in cui si erano nascosti anche i Sayf-Udeen.
    Ma Sazo e gli altri due mercenari continuarono a schizzarsi, a ridere ebeti, a guardare il sole, indicandolo con un dito tremolante, a ondeggiare sulle proprie gambe. L’acqua blu stava già facendo effetto.
    Lecher digrignò i denti dalla furia e prese di peso Sazo in braccio; con cinque balzi arrivò lungo la parete della casa vicino a cui le bestiole avevano fatto i propri bisogni luminescenti; piazzò i piedi di Sazo nella merda, piantandolo bene nel terreno e quello protestò ridendo, pensando fosse un gioco.
    Un gioco. Sì.
    - Sazo, ti va di fare una gara con me? – chiese, suadente, all’orecchio del mercenario.
    Quello rise:
    - Perderai sicuramente!
    - Questo è da vedere… Proviamo, dai! A chi arriva per primo a quel montarozzo laggiù.
    - Non lo vedo.
    - Quello lì. Segui il mio dito. Ecco, bravo. Quelli lì.
    - Va bene.
    - Al mio tre. Uno. Due -
    Ma Sazo al due era già partito, le impronte di merda ben visibili sul terreno mentre mulinava le gambe in una corsa a perdifiato pur di vincere.
    Lecher udì in lontananza degli zoccoli; si voltò verso gli altri due mercenari, ancora presi dai loro giochi felici.
    Non ho più tempo.
    Raggiunse i Sayf Udeen asciugandosi le mani addosso, stando ben attenta a non sgocciolare acqua fluorescente in giro. Si piazzò dietro lo stipite della porta, aderendo alla parete; una sedia con le gambe spezzate giaceva sull’angolo opposto; un rampicante nero si inerpicava fino al soffitto e proseguiva lungo un buco che dava sul piano superiore; i calcinacci, i mattoni, la polvere inondavano i lati di una finestra che dava sulla pozza d’acqua blu. Lecher, ancora attaccata al muro, col lato degli occhi poteva vedere la salita da cui erano arrivati e ben presto un frullio candido fece capolino dall’altura.
    Rasha, alla sua sinistra, spalle al muro, tratteneva il fiato.
    Iudistira, dall’altro lato dell’uscio, appiattito contro la parete, cercava di sbirciare con la visuale periferica.
    Una voce, sembrava un flauto (Come conosco il suono del flauto? Ho mai sentito un flauto in vita mia?), proruppe in un’esclamazione, là, sull’altura:
    - Oh! Puntateli! – Suonava quasi allegra.
    Lecher suppose si riferisse ai mercenari di Iudistira che erano rimasti fuori e che stesse dando ordini a qualcuno con lei.
    Altro rumore di zoccoli, giù dal pendio, sempre più vicini. Ad un certo punto poteva sentire lo sbuffare di un animale a poche spanne, fuori dalla casa.
    Qualcuno smontò dalla sella, con un tonfo e dei tintinnii. Armi? Gioielli? Corazze?
    Lecher si accucciò, tastò il pavimento nella maniera più delicata possibile e, cercando di essere leggera come una piuma (Ha. Haha. Hahaha!) giunse alla finestra che si affacciava sul lago, la polvere che si alzava in sbuffi mentre poggiava i piedi. Rimase arrotolata sulle sue ginocchia, la testa appena sporgente oltre il davanzale per vedere la scena.
    Una donna, i capelli lunghi e purpurei, la pelle talmente diafana da sembrare alabastro segnata da tatuaggi dorati e rossi, gli occhi dalle palpebre pesanti bistrate d’oro, si avvicinò con cautela ai due mercenari di Iudistira, che ormai rotolavano sul bagnasciuga ridendo beoti.
    Si chinò in avanti, i pantaloni stretti alle caviglie e larghi sulle cosce che si tendevano su un sedere piccolo e tondo. Aveva un’espressione divertita:
    - Il maggiordomo ci ha detto che erano sei, i mercenari dell’ibrido. E qui ce ne sono solo due. Queste corazze nere corrispondono alla descrizione che ci ha dato. La domanda è: dove sono gli altri? -
    Diverse cose colpirono in rapida successione Lecher.
    La prima era che sapevano esattamente chi cercare e quanti cercarne, perfino com’erano vestiti.
    La seconda era che Hassam (Quale altro “maggiordomo” poteva essere stato, d’altronde?) aveva parlato. Il bastardo traditore.
    La terza era che i Phaerie per davvero stavano lasciando la valle del Mor-Asidal pur di cercarli e raramente i Phaerie si interessavano alle questioni umane, da quel che aveva spiegato Julianos. Men che mai a quelle della Gehenna, se non per qualcosa che avrebbe giovato loro in prima persona.
    Cosa hanno promesso Crimson e Clover a loro per poterli convincere in maniera tanto lampante? Possibile che siano attratti solo dalla prospettiva di vendicare le guardie che abbiamo ucciso nella retata andata male? Proprio loro, che non hanno senso di appartenenza?
    I due mercenari si fermarono, la fissarono per qualche secondo, poi scoppiarono a ridere insieme.
    Questo parve non compiacere la Phaerie, che mutò espressione in un lampo e serrò le labbra:
    - Trovate un briciolo di sobrietà e rispondete -
    Era un invito che non suonava come un invito.
    Si accostò alla donna un altro essere angelico, i capelli verdi raccolti in una coda lunga, le maniche larghe orlate di porpora, rune viola al centro del mantello, tintinnanti orecchini pendenti. Un Phaerie dello Splendore. Un Aasimar. Un druido.
    - Non penso ti capiscano, ormai. Dio solo sa che cos’hanno bevuto.
    - Da come risplendono di luce propria, credo proprio che sia stato il bagnetto nel lago a dar loro alla testa. Sono perplessa. Li hanno abbandonati qui una volta che si sono resi conto che li avrebbero rallentati? – La Phaerie si guardò intorno. Lecher abbassò la testa quando rischiò che gli occhi dalle palpebre calate incrociassero la sua testa rasata.
    - Tu non l’avresti fatto? – chiese, incredulo, l’Aasimar.
    - Certo che l’avrei fatto! Anche coi miei stessi fratelli! – rispose, senza perder tempo, l’altra. Poi si voltò verso un punto cieco, forse verso gli altri che erano con loro:
    - Perlustrate i dintorni, dubito che siano lontani -
    Lecher entrò nel panico e guardò i Sayf-Udeen in cerca di un aiuto, ma trovò solo la faccia affondata nel palmo della mano per la disperazione di Iudistira, gli occhi vacui per la morte imminente di Rasha, che fissava un punto vuoto, il labbro morso a sangue di Karish e Duriodana che fingeva di non temere la fine, ma in fondo stava urlando internamente. E Shaki, Mika e Maki che si tenevano le mani pregando Dio in una preghiera muta.
    - Con queste tracce così confusionarie è difficile raccapezzarsi… - commentò il druido fuori dalla casa. Lecher vide che stava poggiando una mano a terra, seguendo gli schizzi caotici blu fosforescente.
    - Forse per te – esclamò beffarda la Phaerie dai capelli violacei.
    - Ammetti che ti stai iniziando a perdere anche tu in questo inferno! – esclamò l’altro, perdendo tutto l’ascendente druidistico.
    - Io non mi perdo mai – disse la donna, con una risata breve.
    - Mi chiedo spesso se a voi Phaerie del Sangue diano in omaggio anche la spocchia o è solo una questione genetica.
    - Se fosse genetica l’avresti anche tu, fratellino.
    - Capisci di che parlo?
    - No. E comunque non sai come seguire nemmeno tu le tracce in un posto tanto arido. Le orme si cancellano, gli odori si confondono, i rumori possono essere altri mostri così come altri predatori così come i fuggitivi. I nostri cavalli ben presto cederanno perché non sono abituati a questi ritmi e questo regime alimentare ci sta sfibrando tutti, così come il sole impietoso.
    - Ma come? Voi Sidhe non eravate immuni dalla paura della morte? – la canzonò il fratello. Se Lecher avesse dovuto comparare il comportamento di quell’individuo con quello di Duriodana, nonostante l’handicap razziale quest’ultimo avrebbe vinto a mani basse per fedeltà alla cabala druidistica. Rise di se stessa, che in un momento tanto teso trovava il tempo di paragoni simili.
    - Infatti! – esclamò allegra la donna. Poi sollevò le mani e i tatuaggi che aveva addosso brillarono di luce propria assieme agli occhi; col movimento delle sue palme, i due mercenari di Iudistira urlarono sollevati con uno scatto a un metro dal suolo – Io non temo la morte! – E la donna compì un arco con le braccia; i corpi dei due mercenari, che sgambettavano nel panico, furono capovolti e messi a poche spanne dalla superficie del lago.
    - Pietà! – urlò uno dei due.
    La Sidhe grugnì e poi parlò scandendo ogni parola:
    - Io. Temo. Solo. Il. Fallimento -
    Ad ogni parola i due mercenari venivano immersi da una forza invisibile nell’acqua e fatti riemergere. Le loro urla erano inframmezzate nei momenti in cui finivano sottacqua da gorgoglii disperati. Lecher si voltò verso i Sayf Udeen e i tre mercenari superstiti: nella penombra, tutti avevano gli occhi sgranati.
    - Quando avete finito di battibeccare… - interruppe il quadretto un terzo Phaerie, capelli rosso sangue setosi, lunghi fino ai fianchi, e dita tatuate di nero fino alle nocche strette attorno a un cilindro pieno di un liquido verde - …avremmo trovato delle tracce più evidenti. Orme di merda -
    Lecher pensò a Sako che continuava a correre con gli stivali zuppi di escrementi.
    - Dovresti davvero smetterla di far mostra dei tuoi poteri. La superbia è un attaccamento passionale alla vita. Il modo migliore di staccarsi da questo mondo e raggiungere la non-esistenza è eliminare ogni vanità – disse l’Aasimar, ma col tono di uno che aveva imparato a memoria la lezioncina.
    - “La quiete è la mia casa, la pace interiore la mia unica famiglia”, vero, fratello? – lo motteggiò la Sidhe. Poi abbassò di colpo le mani, con uno scatto che fece vibrare i sonagli alla sua cintura.
    I due mercenari smisero di agitarsi e non riemersero dall’acqua.
    - Andiamo! – urlò il Phaerie dai capelli rossi.
    Risuonarono altri tintinnii, altri zoccoli, le selle sbatterono, sacche forse colme di provviste, forse di armamentari Phaerie stantuffarono e la carovana si allontanò in una scia di polvere che penetrò anche nella casa diroccata.
    Nessuno si mosse per un minuto intero.
    Il primo a parlare fu Iudistira:
    - Hai mandato consapevolmente Sazo a morire, vero? -
    Lecher, lentamente, circospetta, alzò la testa e sbirciò dalla finestra.
    Via libera.
    Si sentì afferrare per un braccio:
    - Vero? – ripeté Iudistira, dolorosamente vicino alle sue labbra e dolorosamente simile ad Hashashin.
    Lecher quasi gli sputò addosso la risposta:
    - Il patto da Cerchia non l’ho mica stretto con lui -
    Poi si divincolò e riprese la marcia, puntando il Ponte del Diavolo, dalla parte opposta a quella in cui era andato il povero Sazo.
    Si chiese perché avvertiva un vuoto all’altezza dello stomaco se non aveva fame.
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    Mi passai le dita tra i capelli biondi ossigenati: stavano cadendo. Sentivo una macchia di vuoto bastardo proprio sulla cima, all’altezza della nuca; lì, un diradamento che in pochi mesi avrebbe potuto farmi diventare Hugh Axe.
    A proposito: dove cazzo si era cacciato, quella testa pelata?
    Erano giorni che aspettavamo lui e Dreklan e ancora non si erano fatti vivi. L’accordo era che il primo che arrivava, aspettava, ma da quando erano arrivati Hashashin e Alexander il sole era tramontato almeno quattro volte. In quei giorni avevo visto andare e venire tre ragazzi della Cerchia Selenita, le mezzelune bianche come ossa sulle maglie consunte, a concludere affari con due predatori Kenziani, un maschio e un frocio; gli altri giorni il panorama non era variato molto, lì, sul ponte del diavolo. In quel momento le balaustre ai lati del passaggio che davano su un letto fluviale ormai asciutto mi davano solo ai nervi: che voglia di prenderle a calci e buttarle giù. Anche quelle più alte.
    Più sono grossi, più fanno rumore quando cadono.
    Mi morsi il labbro, cercando di trattenere quello che la mia mente mi imponeva di dire; Sister guardava l’orizzonte con i capelli scuri scossi dalle folate; Hashashin fumava e contava le provviste che erano rimaste; Alexander fissava la strada maestra, probabilmente sperando che presto i due stronzi ritardatari facessero capolino.
    - Non possiamo aspettare ancora! E se fossero morti? – Non riuscii più a trattenermi.
    Hashashin mi guardò gelido, il ghiaccio nelle iridi azzurre che al di sopra del fumo della sigaretta erano quasi trasparenti, illuminate dal sole:
    - Ti sembra che qualcuno sia mai morto per andare da Copycat?
    - No, ma può essere successo di tutto e tu lo sai! – gli dissi. E se non capiva che c’era qualcosa che non andava, allora era stupido. Avrei dovuto essere io il capo dei Rapaci, altro che quello psicopatico. Adesso si era messo in testa di rapinare una carovana di cui aveva avuto notizia da un venditore di Bullet Town; vatti a fidare di un venditore di Bullet Town: pur di tirare sul prezzo delle munizioni ti vengono a dire le cazzate più allucinanti.
    I vestiti eleganti che Alexander aveva portato dalla sua personale ricognizione facevano capolino da una sacca di iuta, mentre il proprietario guardava con espressione atona la strada. Senza degnarmi di mezzo giro di pupille, quel leccaculo politicante della malora mi disse:
    - Pazienta, David. In passato abbiamo anche atteso settimane prima di rimetterci in marcia -
    Se c’era una cosa che mi dava sui nervi era sentirmi dire di “Stare calmo” quando tutto volevo tranne stare calmo:
    - Pazienta tua sorella, Alexander, quella battona di Albione! Stiamo finendo le scorte e dobbiamo tornare a spostarci se speriamo di rimediare del cibo! Una scaramuccia per mangiare passa inosservata lontano dai punti di raccolta e gli insediamenti, ma uno scontro tra Cerchie proprio al Ponte del Diavolo è un suicidio! E’ proibito!
    - Così è scritto, così sia! – ribatté prontamente Alexander, seguito a ruota da tutti quanti a parte me. Ero troppo incazzato per la formula rituale, a maggior ragione che quel coglione ex fuori-dalla-Gehenna continuò a parlare – Non capisco perché tu sia così preoccupato da un lieve ritardo… -
    E chiamalo “lieve”.
    Ripensai a tutte le cose accadute in quelle settimane: l’abbandono di Lecher, il ritorno all’Autorità, nei monti Mc Kenzie, a parlare a Crimson e Clover; la loro ira; l’intrattabilità di Alexander e Hashashin. Cazzo, tutto questo per una figa! Era fuori dalla portata dei miei pensieri e col cazzo che quei due avevano voluto spiegarci per bene.
    Crimson e Clover volevano Lecher? Perché? Perché era stato tanto urgente abbandonarla? Se aveva contravvenuto alle leggi Gehenniche, beh, che pagasse! Non vedevo altro motivo per cui le nostre signore avrebbero dovuto cercare la Zombitch tanto freneticamente.
    La cosa che mi fece incazzare di più fu tuttavia rendermi conto che temevo solo una cosa al di sopra di Crimson e Clover:
    - La verità, Alexander, è che ho la costante sensazione che Lecher non abbia preso bene la storia dell’abbandono.
    - Non la prenderei bene neanche io – rispose atono Hashashin.
    - Nessuno di noi lo farebbe – si invischiò nella conversazione anche Sister, che finalmente aveva smesso di guardare il cazzo di nulla di fronte alla sua faccia – Qual è la tua paura? -
    Paura? No, non potevo ammetterla di fronte a tutti loro. Non potevo avere paura di fronte ai miei compagni di cerchia.
    - Hai il timore che Lecher stia venendo a cercarci, vero? – chiese a bruciapelo il Re dei Rapaci, un sorriso sghembo su cui teneva in equilibrio la sigaretta. Lo odiai.
    Avvertii le guance avvampare:
    - Ma quale timore! L’ho sempre dominata e non mi pare che mi abbia mai dato problemi, anche se era forte come un toro! E’ solo che potrebbe aver ricevuto l’aiuto di qualcuno e a quel punto sì che sarebbero cazzi! -
    Benché ognuno dei miei compagni cercasse di mantenersi impassibile, percepii distintamente la contrazione sulla mano attorno alla sacca di Alexander, il piccolo tic nervoso di Hashashin sulla palpebra e il silenzio tombale delle narici di Sister, che tratteneva il fiato. Avevano paura anche loro.
    - Lo affronteremmo tutti insieme come abbiamo sempre fatto – commentò Sister.
    Cazzate. Dio solo sa in quante retate si erano divisi e si erano tenuti per sé il bottino.
    Presi per il bavero Sister, la faccia da fesso a un centimetro dalla mia fronte; lo piegai con uno strattone verso di me perché era più alto e fu allora che successe qualcosa di brutto.
    Mentre ancora l’espressione atona manteneva la connaturata capacità di farlo sembrare imbecille anche agli occhi di un altro imbecille, uno sprizzo di sangue da entrambe le sue tempie mi schizzò negli occhi; ruggii, strizzai le palpebre; il peso del suo corpo caracollò sul mio pugno, dal bavero; non riuscii a trattenerlo e sentii un tonfo e settanta chili sul mio piede, mentre sentivo Hashashin che urlava:
    - Dividiamoci! Scappiamo in tutte le direzioni! Ritirata! -
    E allora capii.
    Aprii gli occhi stropicciando l’orbita come un matto; bruciava ancora, sangue colava dalle mie guance e mi insozzava le mani: Sister giaceva a faccia in giù nell’asfalto crepato; ad un metro dal suo fianco sinistro un dardo era conficcato nel terreno.
    La mia testa scattò verso sinistra e vidi: vidi una manciata di ibridi Phaerie agitati convulsamente, alcuni che mi fissavano, altri che cercavano di placcare una ragazza lanciata a tutta velocità contro un soldato, uno con una balestra imbracciata che veniva scosso da quella ragazza; vidi altri due soldati con le stesse corazze (Fighe, però, dove le avranno rubate?) e poi vidi la ragazza per bene.
    Era Lecher Fottuta Molotov Zombitch, coi capelli rapati e senza più le creste rosa, ma cazzo era lei, con quella faccia butterata e quelle orbite scure che la facevano sembrare un teschio scarnificato, il culo un po’ più grasso di come lo ricordassi e le mani strette sul collo del soldato che aveva lanciato il dardo con la balestra.
    Compii un giro completo su me stesso e attraversai il Ponte del Diavolo praticamente lanciandomi da solo calci nel culo; superai l’argine crollato, massi e sterpaglie, una staccionata a cui erano appoggiati dei predatori che non conoscevo e a cui non avrei certo chiesto aiuto perché sapevo bene quanto potesse essere convincente Lecher se non con le parole con la figa; superai una baracca sulla destra, poi alberi contorti e bruciati. Smisi di farmi domande e corsi a perdifiato, smisi di guardarmi attorno, continuai dritto in quella direzione che avevo preso; ebbi il coraggio di voltarmi solo una volta e lei era dietro di me: aveva i denti digrignati, le narici che si allargavano, solo otto metri di distanza tra noi e Dio se erano pochi.
    Corsi, corsi ancora, il petto che mi bruciava come le narici, come la gola, come la testa.
    Un’altra volta mi voltai e vidi che gli ibridi e i soldati ci stavano seguendo, formando una linea orizzontale dietro a Lecher.
    In lontananza la muraglia che Albione aveva eretto verso la Gehenna sembrava un unico susseguirsi di mattoni, pietre e merli; mi ci stavo fiondando contro, ben consapevole che se mi fossi avvicinato troppo avrebbero usato le loro bocche da fuoco.
    Già a quella distanza vedevo delle feritoie scure lungo la muraglia e il brillare minaccioso dell’orlo dei cannoni.
    Albione non amava gli stranieri, men che mai la gente della Gehenna. E quindi si era protetta.
    Dietro alla muraglia, lontani monti innevati svettavano all’orizzonte, ancora più grossi della mastodontica distesa di mattoni e pietre; occupavano la vista, il miraggio lontano e brumoso per gente come me, gente condannata. Albione avrebbe iniziato a sparare pur di preservare i suoi paesaggi verdi dalle mie mani luride.
    Quando la milza iniziò a stilettarmi il fianco con una fitta dietro l’altra, mi voltai senza smettere di indietreggiare da Lecher:
    - Che cosa vuoi?! -
    Anche la troia rallentò e sollevò le braccia e le spalle:
    - Non è forse chiaro? -
    Indietreggiai ancora, gocce di sudore che mi cadevano dal naso, il sole che mi bruciava le spalle. Lecher avanzò, maestosa:
    - Ho ucciso Dreklan. Ho ucciso Hugh Axe. Secondo te cosa voglio? -
    Le sue falcate mi sembrarono le zampate di un leone seleucida verso un rattotalpa. Mi prese a tremare il labbro incontrollabilmente e guardai impotente gli ibridi e i soldati che si distanziavano per potermi precludere ogni possibilità di ritirata.
    Scattai di lato, parallelamente alla formazione e al muro di Albione, ma anche i soldati scattarono di lato.
    Indietreggiai ancora.
    Provai la manovra dall’altro lato.
    Superali superali superali.
    No, un ibrido con i capelli bianchi e gli occhi trasparenti mi puntò contro un gladio.
    - Nulla di personale, chiunque tu sia. E’ che una volta guarito avrei tanto voluto ricongiungermi pacificamente con i miei fratelli, vivere una vita serena, magari anche ritrovare uno dei gemelli. Ma il destino ci ha portato Lecher e lei ci ha portato a voi -
    Mi chiesi perché cazzo mi stesse parlando di affari propri. Non ci tenevo. Avrei potuto facilmente battermi con lui, perché aveva il volto di chi di recente aveva sofferto, occhiaie pronunciate e zigomi sporgenti più degli altri; ma, appunto, c’erano anche gli altri. Uno contro una decina di persone?
    - Ed è proprio qui che sto ritrovando l’amore per la vita – concluse l’ibrido albino, fissando qualcosa alle mie spalle.
    Da qualsiasi parte io volessi provare ad accerchiarli, quelli espandevano la formazione e mi inglobavano e l’unica cosa che rimaneva da fare era proseguire verso il muro di Albione.
    Gli ibridi scalarono la formazione finché, di nuovo, non mi ritrovai a fronteggiare Lecher: aveva infilato le mani al di sotto della tunica e… che teneva in mano?
    - Ti ricordi queste? -
    Era una pezza. Sobbalzavo ad ogni passo indietro, quindi non capii subito che c’era dentro. Poi ricondussi il tutto a un petalo schiacciato e un gambo essiccato.
    - Le cazzo di rose bianche. E che ci faccio io con le rose bianche? – chiese retorica Lecher.
    Urtai qualcosa col tallone e volai all’indietro; le chiappe mi sbatterono su spigoli acuminati e due lacrime mi uscirono dalle palpebre; mi trascinai sulle braccia, ferite che si aprivano ustionanti. Riuscii a rimettermi in piedi dando le spalle alla muraglia di Albione.
    Mi fermai.
    Lecher si fermò.
    La fissai. Mi fissò.
    - So dove andranno, Lecher! Andranno ad est, verso Forte Girgentum. Almeno Hashashin ci andrà di sicuro perché ha contatti all’interno -
    Mi fissò ancora.
    - Ti ho detto dove andranno! Posso condurtici io! -
    Mi fissò. Ancora.
    - Lecher, per favore, dimmi qualcosa! -
    E Lecher fissò per un ultimo interminabile secondo.
    Poi sorrise; i denti, meno neri di quanto ricordavo, scintillarono sinistri come i cannoni di Albione, gli occhi erano incavati in fosse profonde e una luce malevola li animava; erano un teschio, un teschio che ghignava.
    Allora mi voltai e volli fortissimamente il suicidio.
    Corsi a perdifiato verso Albione.
    Non sentii i passi dei miei inseguitori, probabilmente sapevano che mi sarei ammazzato da solo.
    Meglio morire così che nelle mani di Lecher Molotov Zombitch.
    Le feritoie divennero quadrati ben delineati sulla facciata alta delle mura, una serie infinita di bocche di fuoco, puntate contro di me. Qualcuno urlò con un amplificatore, dal sentiero di guardia:
    - Alt! -
    Ignorai l’avvertimento della sentinella.
    Corsi ancora verso Albione.
    Contai i cannoni: quando arrivai a trentacinque, il primo colpo era partito con uno sbuffo di fumo e un boato da una feritoia sulla destra; la palla rimbalzò ad un metro da me sollevando polvere e sabbia e morte.
    Ero già a gittata.
    Mi girai per vedere l’espressione di Lecher: era atona. Sembrava essere delusa dal fatto che qualcuno le stava fottendo il divertimento di mettermi le mani addosso.
    - Vaffanculo, Lecher! Non mi piegherò mai a te! – trovai la forza di gridare.
    Quando guardai di nuovo il punto verso cui stavo correndo, potevo ormai scorgere piccoli puntini rosati sulla cima delle mura, uomini che camminavano avanti e indietro e qualcuno fermo a fissare la scena. Trenta puntini rosati uno sull’altro potevano arrivare forse all’altezza minima delle mura di Albione.
    Le porte titaniche, bronzo scuro, sembravano comunque piccole in confronto alla distesa di pietra erta in verticale.
    - Identificarsi o faremo fuoco! – fu l’ultimo avvertimento della sentinella.
    “Boom” fu l’ultimo avvertimento della mia vita.

    Edited by Nightsong - 2/11/2016, 10:42
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    - Ci sarà una tempesta, a breve -
    Duriodana l’aveva affermato con la solita, assoluta calma, come se stesse parlando del tempo in un pomeriggio di serenità, di fronte ad un bicchiere di succo di datteri durante una rimpatriata con amici.
    Lecher non avrebbe mai immaginato che il clima potesse peggiorare così tanto, anche se alcune nuvole all’orizzonte, piccole ma ravvicinate e copiose, avevano fatto la loro comparsa, spruzzate di rosso dal tramonto.
    Fronteggiavano il sole morente, accecati dalla sua luce violenta, diretti verso il cimitero di Arelate da cui, stimò Lecher, distavano ormai qualche chilometro, nella Gehenna nord occidentale, quasi al confine con l’Alemagna.
    In lontananza, a manca, le immense montagne della catena Mackenzie ostruivano la vista.
    Più vicino, sulla sinistra, campeggiò un edificio di cui rimanevano la facciata, lo steccato ed una parete laterale: un gehemelo, dal tronco candido e dai frutti poco visibili a causa del riverbero solare che ne eclissava la luminescenza, aveva invaso la struttura dalla parte interna e faceva capolino con le radici dalla porta frontale, con i rami dalle finestre del piano superiore. Il legno alabastrino si contorceva sulla parte alta come un filo di gomitolo lanoso, quasi formando un nuovo soffitto: non un ramo indisciplinato cercava di salire verso l’alto differenziandosi dai compagni curvilinei ed orizzontali, non uno svettava a punta sulla matassa lignea. Sembrava un nido d’uccello scolpito nel travertino.
    Una seconda porta, chiusa, cui si accedeva da tre gradini malandati, celava l’interno all’occhio dei passanti. Sul lato opposto della strada piena di crepe, un palo metallico solitario recava la scritta “Stop” subito prima di un incrocio perpendicolare.
    Dopo quella struttura non si vedeva traccia di altri edifici, non ad occhio nudo, neanche in lontananza. Se stava per arrivare una tempesta, forse era meglio accamparsi.
    Lecher si fermò e si voltò ad osservare gli altri: Karish aveva palesemente il fiatone e sulla coltre ramata dei suoi capelli, lei intravide i baluginii di qualche perla di sudore; Duriodana, imperturbabile, aveva iniziato qualche sorta di meditazione acrobatica, mettendosi in equilibrio su di un piede e portandosi l’altra gamba alla fronte con l’aiuto delle mani. Sembrava non essere minimamente colpito dalle distanze che avevano percorso in un giorno, se non che due profonde occhiaie infingarde tradivano la sua reale stanchezza. Rasha era piegato in avanti, con la testa tra le ginocchia, forse per far affluire il sangue ed evitare mancamenti e svenimenti. Iudistira stava controllando a propria volta le condizioni dei mercenari superstiti della sua guardia personale.
    Decisamente, avevano bisogno di accamparsi:
    - Fermiamoci lì, per stanotte. A questi livelli è sciocco proseguire - disse Lecher, indicando la costruzione invasa dal gehemelo.
    - Non abbiamo problemi di stanchezza, Lecher… - la apostrofò freddamente Iudistira.
    - A me sembra tutto il contrario, Iudi. E anche se non foste stanchi, vi vorrei ricordare che ben presto ci sarà un bell’acquazzone, del tipo che solo la Gehenna può offrire – gli rispose.
    Le narici di Iudistira si allargavano e restringevano, le labbra si contrassero, una vena gonfia prese a pulsare sulla tempia destra: Lecher sapeva che stava per sputare veleno anche prima che ebbe effettivamente parlato:
    - Proprio perché ci sarà una tempesta, forse è meglio non accamparsi sotto un albero se non vogliamo morire folgorati, tu che ne pensi?! E cosa ti fa pensare che noi non ce la possiamo fare? Pensi di essere l’unica a poter gestire un territorio del genere? Non crederti chissà quanto superiore, femmina! -
    Punse la giovane nel profondo, perché, sì, effettivamente Lecher credeva di aver ricevuto il comando per la sua capacità di adattamento alla Gehenna e per la sua esperienza mostruosa nella zona distrutta e perché, sì, si reputava l’unica in grado di saper sopravvivere senza alcun aiuto esterno fra tutti loro. Non seppe controllarsi:
    - Se tu avessi vissuto in questa terra di merda forse sapresti che l’albero di gehemelo proprio per la sua struttura poco sviluppata in altezza, ma in larghezza, è il più adatto a fornire un riparo contro le folgori, razza di viziato imbecille che non sei altro! -
    Ma zittire Iudistira, ormai Lecher lo sapeva, non era così facile:
    - E sono stanco di mangiare gehemele! Ho bisogno di carne, capisci?! Di carne! Di pane, di verdure! Non di un fottuto frutto che mi fa pisciare blu luminescente! -
    - Forse hai perso di vista il fatto che sia l’unica fonte di cibo nel raggio di miglia e miglia? Forse hai perso di vista il fatto che se non ci fossi io, qui, probabilmente sareste già morti? -
    - Forse hai perso TU di vista il fatto che se non ci fossi MAI stata tu, allora non saremmo dovuti scappare via a gambe levate dal Brahnemuth e a quest’ora probabilmente sarei stato già a casa ed ingrassare come il Faraone! -
    Contro ogni aspettativa, ad ammutolire fu Lecher.
    Lo guardò ad occhi sbarrati.
    Le si gonfiò il fegato.
    Lui aveva ragione, ed era proprio questo a renderla così nervosa, essere incapace di rispondere.
    Tutti erano ammutoliti. Nessuno osava fiatareLecher si morse il labbro:
    - Fino a prova contraria noi due abbiamo fatto un patto. Ci saremmo vendicati entrambi dandoci una mano a vicenda ed esattamente come sono responsabile di tutto ciò io, lo sei anche tu. Hai scelto volontariamente di seguirmi -
    Un sussurro sibilante che infiammò lo sguardo di Iudistira.
    Shaki interruppe il silenzio imbarazzante:
    - Capo, io ho fame… sono stanco… mi va bene anche un pulcioso gehemelo per cena… -
    L’altro gli diede manforte:
    - Non tocchiamo cibo da un giorno e mezzo, ormai… capo, per favore, mettiamoci là dentro… -
    Lecher stava per rivolgere a Iudistira lo sguardo più trionfante che riuscisse a fare, quando un profilo scuro, in lontananza, si mosse verso di loro.
    Iudistira si voltò; in pochi secondi tutti stavano studiando il sentiero che si erano lasciati alle spalle per capire che cosa si stesse avvicinando. Rasha si rizzò in piedi, gli occhi sbarrati.
    Qualora i segugi Sidhe li avessero già raggiunti con le loro cavalcature dopo l’iniziale depistaggio, allora sarebbero tutti morti. Tutti.
    Anche se, all’improvviso, un urlo squarciante balzò nella testa di Lecher (“Prendetela viva!”) e si chiese se proprio tutti sarebbero morti in un’ipotesi simile.
    A cinquecento metri di distanza, Lecher distinse i contorni e le chiazzature di un tricefalo cornuto e dietro di esso un oggetto fatto di legno su cui svettava una figura umana. Un ambulante con un carro e delle merci.
    A duecento metri di distanza, loro non si erano mossi e lei aveva visto che l’ambulante in sella al carro portava un cappello a tesa larga ed un mantello scuro.
    Lesse sulle facce dei mercenari la stessa espressione che probabilmente aveva lei in quel momento: bramosia, fame, cupidigia. Assaltare una carovana con un solo povero venditore indifeso sarebbe stato facile e remunerativo.
    Peccato che a cento metri l’ambulante si accorse di loro, emise un fischio lungo, acuto e da dietro il carro comparvero altri tre individui che circondarono il barroccio.
    Le espressioni dei mercenari virarono dall’eccitazione alla delusione.
    Quando le tre guardie tirarono fuori dei doppiacanna e li puntarono contro di loro, Lecher temette il peggio e Shaki, Maki e Mika presero un colorito cianotico.
    Aveva visto solo una volta un’arma del genere in azione e le era bastato per tenercisi alla larga. Quella cosa era diabolica ed infida.
    - Nessuno si muova o gli buco la fronte! – esclamò l’ambulante seduto sul carro.
    Non che ci fosse bisogno di quell’avvertimento: erano pressoché immobili fin da quando l’avevano avvistato alle loro spalle. Le due canne metalliche, scure, lunghe, terminavano in un manico color castagno, sotto il quale era presente una piccola leva su cui le guardie tenevano l’indice della mano, pronto a scattare.
    - Su le mani! – disse una delle tre sentinelle, bardata in una tuta imbottita blu scuro, sicuramente il ricordo di qualche negozio prebellico.
    Iudistira fu l’ultimo che, a malincuore, tirò su i palmi rivolti al cielo, schioccando i denti.
    Lecher vide gli spallacci rotondeggianti di una delle sentinelle col doppiacanna: le piacquero particolarmente. Era da tanto che non trovava spallacci ben fatti. Peccato non poter assaltare quella carovana, veramente un peccato. Però i doppiacanna non lasciavano grande possibilità d’azione, visto che erano terribilmente veloci e precisi, senza contare che se pure ti ferivano solamente in una parte non vitale, in poco tempo la ferita marciva e dovevi tagliare via tutto, oppure ti prendeva la febbre mortale.
    Era difficile trovare munizioni per quelle armi diaboliche, nella zona distrutta: merce prebellica, in via d’estinzione, quasi scomparsa. I secoli e l’usura le avevano anche rese piuttosto pericolose da maneggiare: c’era il rischio che con un fragore di tuono si rompessero tra le tue mani, dopo che avevi premuto la leva sotto il manico, e che il botto ti portasse via la pelle della faccia, il naso, le dita. Anche se Lecher dubitava che quelle tre sentinelle avrebbero realmente usato i doppiacanna, non volle tastare il terreno né correre il rischio.
    Fecero largo alla carovana, spostandosi ai lati della strada.
    Lecher si vide un doppiacanna puntato dritto sul naso: sai che bello ritrovarsi un sassetto di piombo infilato nel cranio?
    Li superarono senza smettere di tenerli sotto mira:
    - State indietro, non vogliamo grane… vogliamo solo che la merce arrivi a destinazione… - li rassicurò l’ambulante col mantello. Le guardie procedevano a ritroso lungo la via, pur di non perderli d’occhio. La luce rossa dell’orizzonte li avvolse tutti quanti: sentinelle, ambulante, carretto e bramino cornuto.
    Automaticamente lei, Rasha, Iudistira, Karish, Dana, Shaki, Maki e Mika indietreggiarono lungo la strada che avevano fatto, dando la fronte alla carovana.
    Poi risuonò un botto improvviso.
    Si buttarono a terra, genuinamente convinti che una delle guardie avesse usato il doppiacanna.
    Lecher si accucciò sul terreno, strizzando le palpebre, i timpani che fischiavano. Quando ebbe il coraggio di riaprire gli occhi si tastò frenetica il petto alla ricerca di un foro di entrata. Fissò Dana accanto a lei, ancora con gli occhi chiusi e una preghiera druidica sulle labbra; guardò Rasha, che aveva le palpebre spalancate e la pupilla ristretta. Iudistira si stava già rimettendo in piedi e l’espressione sul bel viso fu scossa dall’incredulità. Lecher si mise gattoni e guardò avanti. La scena che si parò loro di fronte aveva del surreale: l’ambulante era a dieci metri di distanza, prono sul terreno, con la testa spaccata a metà e il cervello che colava sulle spalle bruciate; le due sentinelle erano state sbalzate con tutto il carro contro lo steccato della casa prebellica ed erano completamente annerite, come decorazioni macabre allineate; la terza sentinella, quella dietro al barroccio, era stata colpita di striscio, ed era caduta a faccia in avanti come l’ambulante, la calotta cranica scoperta. Il bramino sembrava un tappeto, le budella arrotolate tutte attorno. Un piccolo cratere si era formato al centro della via.
    Iudistira si avvicinò con circospezione al bramino liquefatto. Si accucciò e tastò il terreno, temendo altri tranelli. Lecher lo vide raccogliere qualcosa da terra, con la stessa gestualità di quando ci si toglie un capello dai vestiti.
    Iudistira prese un pezzo metallico di forma triangolare; senza abbassarlo guardò intensamente Lecher.
    Lei si avvicinò carponi, troppo impaurita per sollevarsi: ora che lo vedeva da vicino, non era proprio un triangolo. Due lati erano dritti e puntavano ad un unico vertice, ma il terzo lato era tutto curvo; vicino al vertice un anellino era rimasto attaccato.
    Un innesco.
    I prebellici usavano quelle cose infernali per la guerra.
    Mine le chiamavano. E non rimaneva niente di te se non pezzi sparsi o carbone.
    Meglio dei doppiacanna.
    Poi a Lecher venne in mente che, se non fosse sopraggiunta la carovana, sarebbero stati loro i primi a passarci sopra.
    Quando il sospetto di una trappola voluta appositamente per loro si fece largo in lei, una figura alta e dinoccolata si precipitò in strada dalla facciata diroccata ed iniziò a correre a perdifiato per la via principale, verso l’ovest, verso il tramonto.
    La figura si voltò in corsa: naso prominente, fiammeggianti occhi scuri, capelli corti castani ingrigiti sulle tempie.
    - ALEXANDER! – ruggì Lecher.
    Non pensò, non rifletté, non aspettò: corse appresso al reietto di Albione senza indugi.
    Mentre i piedi le sbattevano sulla dura strada e la voce di Iudistira diventava sempre più lontana, quasi un eco (Feeeermaaaatiiiiiii), lo spicchio di sole rimasto a vegliare su quella parte di mondo si restringeva e il cielo perdeva saturazione, si scuriva, si punteggiava di lontani chiodi bianchi nel manto nero, le nuvole si confondevano con la volta celeste e l’unico modo per rilevarle era individuare le porzioni di cielo in cui le stelle erano oscurate. L’orizzonte, tuttavia, conservava ancora quel riverbero rossastro, talmente basso che sembrava adagiato sul suolo, come se, intimidito dalla vicinanza del sole morente, arrossisse imbarazzato e cercasse di nascondersi.
    Alexander si stagliava su quei colori, ombra nerissima sullo sfondo demoniaco che non sapeva decidere tra l’oscurità e l’ardore del giorno. L’armatura a placche sbatacchiava sui fianchi, gli stivali di pelle prebellica, neri, urtavano il terreno producendo un rumore di tacchi ritmico; Lecher ammirò le falcate lunghe, l’altezza considerevole, l’assurda resistenza con cui l’ ex amante riusciva a non perdere neanche un metro rispetto alla inseguitrice.
    La spada lunga seleucida, lievemente curvata nella parte terminale dei suoi due metri di misura, lucida, era legata di traverso sulla schiena di Alexander. Non dondolava, non si muoveva quella spada, e Lecher ebbe la netta sensazione che fosse dotata di una propria anima, che fosse LEI, la lama seleucida, la vera amante di Alexander, che stava facendo di tutto pur di non gravare od ostacolare la corsa dell’amato, immobile e mansueta, come una moglie che attenda solo un comando del consorte per muoversi, pronta ad essere sfoderata. Smaniosa di sangue. Sposa del mattatoio, carnivora, vampira virginea, mai toccata da altri.
    Quante volte Lecher aveva spiato Alexander mentre la affilava con una pietra? Quante altre volte l’aveva sorpreso ad accarezzarla come un pretendente di un amore impossibile, il cui unico sbocco dalla passione folle era la carezza innocente?
    Te la ficcherò in culo, non preoccuparti… Sarete un’unica cosa, così!
    Corse ancora. Non guadagnò un solo metro sul Rapace.
    Più veloce!
    Alexander virò all’improvviso verso sinistra e prese a correre in via diagonale rispetto alla strada primaria.
    Lecher cercò di girare nello stesso momento, ma la manovra la fece slittare in avanti, sollevando polvere e pietrisco, si tenne in equilibrio sul piede destro e riprese ad inseguire.
    Ad un chilometro in linea d’aria distinse i contorni di una struttura ad archi e di qualche Droseracea Gigante. Il fusto alto e sottile, dai mille tentacoli rigidi e lisci, incombeva su quella specie di acquedotto ed alcuni lampi rivelarono un intero esercito di droseracee tutte schierate in quel punto.
    Altri tuoni e la tempesta ebbe inizio.
    Quando la distanza che la separava da Alexander diminuì, il suo cuore giubilò e parve pompare con maggiore impeto aria ai polmoni.
    Al buio la predatrice non capì cosa quel luogo fosse finché non mancarono solo poche centinaia di metri: croci, lapidi, blocchi marmorei, piccole cappellette che dovevano aver visto giorni migliori.
    Il cimitero di Arelate.
    L’acquedotto che aveva visto in lontananza non era nient’altro che l’antico anfiteatro da cui avevano ricavato il camposanto in tempi di guerra. Era una struttura circolare di duecento metri di diametro, alta non più di cinque metri. Risaliva a tempi antecedenti perfino alla popolazione degli antichi ed era in decadenza già prima dell’apocalisse.
    Gli archi di pietra si susseguivano con qualche interruzione dove la parete era crollata.
    C’era una balaustra di ferro tutta attorno, in ghirigori geometrici.
    Fuori, le lapidi dei poveri che non potevano riposare assieme alle tombe dei benestanti all’interno dell’anfiteatro. Tombe grigie. Nessun ornamento se non qualche angelo solitario o qualche globo con colombi in effusione. Ciò che arricchiva quella parte squallida del camposanto erano proprio i fusti di Droseracea, rossi, gialli, con i punti di intersezione dei rami gonfi verde brillante. Un rattotalpa spiccò un salto da una lapide con una croce gemmata e cadde su uno di quei fusti: l’albero arrotolò in pochi secondi la parte terminale del ramo sull’animale e continuò a ripiegarsi su se stesso anche dopo che lo ebbe completamente stritolato, portandolo al cuore della pianta, in cui lo avrebbe digerito.
    Dopo il cerchio più esterno si stagliava una cancellata a punte di lancia, dove qualche asta scura si era fusa al calore del sole della Gehenna, deformata dal caldo, liquefatta dal Martello di Dio.
    Fulmini caddero.
    Folate di vento che le sferzavano la frangia corta, che scompigliavano i capelli di Alexander.
    Quello si fermò solo di fronte al triste cancello del cimitero. Ruotò su se stesso e la fronteggiò sfoderando in pochi secondi la lama seleucida.
    Un lampo ne illuminò le volute fiammeggianti sopra incise, una danza di nubi affusolate graffiate nell’acciaio. Acciaio di Seleucidia.
    Letale. Mortifero.
    Altri fulmini. Alexander era immobile, a fissarla con sguardo di disappunto, pronto a scattare.
    Lecher tirò fuori il brando da fabbro.
    Non le infuse più serenità, quell’uomo.
    Aveva preparato una trappola per lei e gli altri.
    Aveva cercato di ucciderla.
    Sì, beh, lei aveva ucciso tutti gli altri o quasi, quindi che Alexander fosse partito prevenuto nei suoi confronti era più che comprensibile.
    Ma Lecher era permalosa.
    E stanca.
    E aveva voglia di danzare con lui, con quell’acciaio di Seleucidia e quei fulmini di contorno, col forte rischio che una Droseracea la ingurgitasse o una lapide le facesse perdere l’equilibrio.
    Voleva ballare col suo amante.
    Scucirgli altre informazioni.
    Dov’è Hashashin?
    Sorrise con un baluginio di denti sbiancati dalla calcina:
    - Mi concede l’onore di questo ballo, messere? -

    Folgori. Potenza virile per le cabale antiche. Fuoco dal cielo per gli Egizi nella settima piaga. Dio che manifesta la sua collera per i cristiani. Preannunciatori della pioggia nel resto del mondo: preannunciatori di tempesta elettromagnetica nella Gehenna.
    Niente acqua, non nei temporali della zona distrutta, solo scariche elettriche violente.
    L’acqua viene a noi sottoforma di fiumi e rigagnoli solo dai monti Mackenzie, solo dall’esterno. Come le persone: nessuno è nato dalla Gehenna. La fertilità non è prerogativa della terra della distruzione: l’acqua vitale si trasforma in strumento mortifero, la stagione delle piogge in una messaggera di morte.
    La morte è dappertutto, assieme alla putredine, alla consunzione, all’astio.
    E lei amava la Gehenna. Ce l’aveva nel sangue.
    Avevano tentato di tenercela lontana, ma lei era tornata, caparbia: e non l’aveva presa bene.
    Folgori.
    Lampi.
    Semele era stata trasformata in immortale da Zeus con un fulmine sulla testa. Secondo altre versioni del mito, Zeus l’aveva ingravidata mediante lo stesso sistema.
    Lecher come Semele? Io ero Zeus? Oh, l’avrei ingravidata volentieri. Le avrei fatto vedere la mia potenza virile e la mia esperienza di una quarantina d’anni di amplessi folli.
    Mi fece impressione vedere che le sue creste erano state rasate e che il suo originario castano stava rispuntando, impetuoso, irrefrenabile. La sua vera natura stava riemergendo. L’amnesia aveva rovesciato la sua personalità solo per un tempo relativo. Prima selvaggia. Poi docile. Infine di nuovo indomita. Rieccoti, Lecher, riecco il nostro Lucifero ribelle.
    Era ferma: alle spalle una cappelletta grigia, con un’entrata ad arco, dei loculi seminascosti nell’oscurità della cripta e consunti ritratti miniaturizzati accanto a nomi poco leggibili; sulla costruzione una croce di granito, alta un braccio.
    Un fulmine cadde su una droseracea a dieci metri di distanza, sulla destra: quelle luci intermittenti rischiaravano il viso della mia donna, della donna della mia vita. Della mia Nemesi.
    I bei lineamenti rovinati da una pelle bistrattata e densa di impurità erano atteggiati in un’espressione di sfida commista a divertimento.
    - Sono troppo vecchio per ballare… - ribattei, ironico.
    Scattò verso sinistra, brandendo il martello da fabbro come solo Thor col suo Mjöllnir avrebbe potuto fare, possente, matronale, quasi virile. Saltò su una lapide, poi su un’altra adiacente; al terzo salto cercai di intercettarla con Kusanagi, ma la spada sfiorò solo le suole degli stivali di Lecher e l’acciaio di Seleucidia fendette il nulla, sibilando. Continuò imperterrita a saltare da una tomba all’altra, in cerchio attorno a me che ero nello spiazzo.
    Alzai la guardia e stringendo l’elsa piegai le ginocchia e seguii quel moto circolare uniforme.
    Non le diedi mai le spalle.
    Esplose un tuono a pochi metri da lei, ma Lecher non perse un solo balzo. Sembrava una lezione di sirtaki greco.
    Non distoglievo lo sguardo: non avrei potuto farlo neanche se avessi voluto. Ero ipnotizzato dall’energia dei suoi occhi luccicanti di brama da combattimento, da quel petto carnoso e ansante sul quale si stendeva una coltre di lentiggini, da quei passi cadenzati, da quel sorriso grigio che ricordavo peggiore e inquietante (si è sbiancata i denti?) con cui ammiccava nella mia direzione. Poi saltò verso di me, sollevando il martello, mentre l’ennesimo fulmine erompeva dal cielo alle sue spalle.
    Mi arrivò addosso con la forza di un deathclaw in carica, ma la Kusanagi messa di traverso bloccò il suo colpo dall’alto, malmenata sul piatto della lama da un offensivo, banale metallo da fucina, sporco, non benedetto, non ripiegato. Bruto. Grezzo. Come la padrona, che atterrò senza staccarsi dall’abbraccio delle armi.
    Scintille. Mi stava a venti centimetri di distanza, col manico del martello bloccato dall’acciaio di Seleucidia: digrignò i denti per lo sforzo e le pupille le si restrinsero.
    La spinsi indietro, ma fare una gara di forza con Lecher era come giocare a chi stava più a lungo sottacqua con un pesce.
    Sollevò le sopracciglia, beffarda. Persi sicurezza: lei ne approfittò, mi spintonò e rotolò di lato scansando il mio fendente dall’alto. Kusanagi tagliò la terra brulla e dovetti impiegarci qualche secondo di troppo per sfilarla.
    Tirai l’elsa, ma non si spostò di un millimetro.
    Mi guardai le spalle, preso dal panico: Lecher si era appoggiata ad una stele spaccata in due, a braccia conserte, per godersi lo spettacolo. Sogghignava:
    - Allora? Non vuoi approfittarne? – le gridai contro, prendendo a sudare.
    Lei appoggiò il mento al palmo della mano destra:
    - No. La scena è divertente! – rispose. Perché? Voleva dimostrarmi che poteva battermi come e dove voleva? Che non ero nient’altro che una pulce sul didietro di un rattotalpa in confronto a lei? Che ero pateticamente vecchio e inadatto alla Gehenna?
    Se pensava di poterlo fare… aveva proprio ragione!
    - Io aspetto, eh… non avere fretta… - soggiunse. Fu allora che riuscii a sguainare Kusanagi dal terreno, trionfante.
    Quando mi girai era sparita.
    Timor panico.
    Aguzzai la vista per scorgere un’ombra più scura tra i blocchi marmorei che si stagliavano all’orizzonte. Ad ogni lampo avevo paura di vederla comparire all’improvviso di fronte a me.
    Una tomba crollata. Un parallelepipedo innocuo. Una stele sormontata da una croce celtica. Una statua disadorna accanto ad una lapide bassa, in posizione eretta, di cui distinsi solo i contorni dei capelli corti.
    Una statua un po’ strana per un cimitero.
    Mi avvicinai guardingo, tenendo alta Kusanagi.
    Non si era mossa minimamente.
    Lampo; non ci pensai due volte: corsi sollevando la katana e balzando contro la figura fendetti con un taglio diagonale il collo cigneo. La testa rotonda e pesante rotolò a terra.
    Una spruzzata di gesso polverizzato mi sporcò la corazza e il candore marmoreo del corpo mi fece capire che avevo decapitato una vera statua.
    Abderita! Sciocco!
    La risata crudele di Lecher eruppe dalla destra: un piede appoggiato alla carcassa di una droseracea bruciata da un fulmine, il braccio destro a ciondoloni sul fianco, con il martello sospeso a pochi centimetri dal suolo, la mano sinistra stretta sull’anca, il gomito in fuori, gli occhi chiusi, le labbra schiuse per l’accesso di ilarità:
    - Dicono che quando si invecchi la vista inizi a calare naturalmente, Alexander! Forse è ora di dedicarti all’Otium, per te! -
    Vecchio. Ancora quella parola:
    - Perché lo fai, Lecher? -
    Smise di botto di ridere: aveva cambiato all’improvviso espressione, neanche fosse Giano Bifronte che nascondeva una faccia per mostrare l’altra. Adesso gli occhi fiammeggiavano d’ira, le pieghe ai lati della bocca formavano delle linee discendenti attorno ad una spelonca vorace che mostrava alveoli stridenti e appuntiti:
    - Perché mi avete violentato. Perché non vi siete mai degnati di fornire delle spiegazioni. Perché mi avete trattata come una bestia da soma. Perché pensate di poter prendere quello che volete, quando volete… - Non aveva ancora finito. Saltò giù dalla droseracea fumante e si avvicinò a me, a lunghe falcate, dondolando il martello. Una fiamma si sollevò alle sue spalle, sulla pianta riversa. Un demone. Un demone dell’inferno. La Grande Meretrice. Il colore delle prostitute era il rosso, è vero, ma il nero era il vero pozzo delle sue intenzioni, della sua anima. Provai a interromperla, ma mi sovrastò alzando la voce venata di toni isterici:
    - Perché c’è chi mi ha insegnato a chiedere con dolcezza e che in questo modo si può ricevere di più, che mi ha insegnato cos’è una famiglia, che mi ha insegnato cos’è la fede, la vera fede, non il timore incondizionato, cos’è la fiducia, cos’è la bellezza. Perché nonostante mi abbiano insegnato tutto questo e nonostante mi abbiano fatto capire perché avrei dovuto odiare voi, tutti quelli come voi, i vostri predecessori e l’intera Gehenna, io continuo ad amarvi, incondizionatamente… -
    Indietreggiai. Ebbi paura. Non perché potesse farmi del male, che era il minimo, ma perché non riuscivo a dirle che anche io la amavo incondizionatamente. Continuò, stridula:
    - Perché tu ami la tua spada più di quanto possa amare una donna mortale. Perché in me c’è qualcosa che non va e l’ho scoperto solo adesso che è troppo tardi per cambiare. Perché non ricordo un cazzo neanche dei miei primi tempi nella Cerchia, perché mi avete offesa, umiliata, sfruttata e sottovalutata. Perché vi amo quando mi fate del male, perché sono dipendente dal marcio e dalla putredine della Gehenna. Vi odio perché avete gettato questo incantesimo su di me… -
    Sollevai la Kusanagi puntandola contro il suo petto, cosicché non potesse avanzare ancora: mi resi conto di non poter tenere dritta la lama dal tremore dei miei polsi.
    - Perché mi avete cacciata e abbandonata come un ferro vecchio, perché non significo niente per voi… - Tu non sai quanto significhi per noi! - …perché mi mancano le volte che prendevi la Bibbia e me la leggevi e mi raccontavi di un furbone chiamato Sisifo e di un’altra pazza chiamata Medea e di un coglione che si chiamava Orfeo… perché mi avete regalato delle rose bianche in segno di scusa ma poi ve ne siete fregati… -
    Non potevo crederci: Lecher stava piangendo, col viso contratto come quello di una bambina affamata:
    - Vi detesto, vi odio e vi aborrisco… - singhiozzò -… e mi hai cercato di far fuori, lì, dove ci ha sorpassato l’ambulante… potevo esserci io, lì, senza braccia, gambe, naso! -
    - Lecher, dannazione, è istinto di conservazione! Immagino cosa hai fatto agli altri, so cosa sei in grado di fare… avrei dovuto aspettare la morte così, senza far nulla?! – ribattei alla dea piangente.
    Sgranò gli occhi: sembrava incredula.
    - Alexander… io non ti avrei mai ucciso… - sussurrò.
    Tuffo al cuore. Un battito mancato.
    Non sapevo se esaltarmi o deprimermi:
    - Lecher, c’è un motivo se ti abbiamo abbandonato… -
    - …vi eravate forse stufati di me? – sibilò lei, con gli occhi fuori dalle orbite, una smorfia terribile sul viso. In quel momento la trovai assurdamente inquietante.
    - Lecher, fammi finire, ti prego! Clover e Crimson ti stanno cercando! Hashashin lo sa! Hashashin sa anche perché, ma non me l’ha mai detto! -
    Rise istericamente, portandosi la mano sulla congiunzione delle sopracciglia:
    - Anche tu con questa barzelletta? -
    Scattò in me il meccanismo dell’insofferenza verso la presunzione:
    - E’ TUTTO VERO, LECHER! Cazzo, quanto ci vuole a capirlo?! Perché altrimenti avremmo dovuto abbandonarti? Ti amavamo, ti amiamo… oddio… io ti amo, Lecher! Non consumavi le scorte, non ti lamentavi mai, non ti fermavi mai… eri bellissima. No! SEI bellissima! -
    Ammutolì, l’ombra di un dubbio sulla coltre dei suoi occhi incastrati tra le sbarre di galera delle dita della mano aperta sul volto:
    - Hai travisato le nostre intenzioni! Io non so, io non lo so, Lecher, perché Clover e Crimson ti vogliano tanto! Ma sono pericolose. Sono pazze. Non sono dee, e questo è vero, ma sono potenti, terribilmente potenti! E non mi fido di loro. Hashashin ci ha pensato su tanto ed ha reputato che fosse meglio portarti il più vicino possibile al Brahnemuth, dove presumibilmente avresti fatto perdere le tue tracce… non credevamo che saresti tornata per vendicarti! -
    Immobile. Non un muscolo si tese in uno spasmo:
    - E ci stai uccidendo, Lecher, perché abbiamo cercato di salvarti! Non te ne rendi conto, cazzo! Sì, non siamo stati umani nei tuoi confronti, ma ti dovevamo rendere una donna della Gehenna, una di noi! Dovevi abituarti all’asprezza di questo mondo, a combattere tutto e tutti! -
    Indietreggiai ancora. E inciampai su una pietra infingarda. Sbattei il sedere a terra senza perdere la presa sulla spada di Seleucidia. Vidi con terrore la predatrice avvicinarsi a occhi sbarrati, come il fantasma vendicativo di qualche racconto dell’orrore. Puntai di nuovo la Kusanagi, da seduto.
    Non era una gran minaccia, ma Lecher si fermò. Poi, con voce roca, chiese:
    - Perché non ho mai potuto chiedere come sono entrata nella Cerchia, Alexander? Perché? -
    Sospirai. Soppesai la situazione. E mentii su alcuni punti, mentre rivelai la verità su altri:
    - Non ho idea di come tu sia arrivata a noi, Lecher. So solo che un giorno Hashashin è tornato da una ricognizione durata settimane, mezzo distrutto, con te al suo fianco. Non ci spiegò. Non ci disse dov’era stato. Non ci fece capire niente -
    Cadde in ginocchio, piangendo ancora. Il martello cadde inerte a terra:
    - Lecher, Lecher, ascoltami! -
    Lei sollevò il viso: la lama riflesse la luce di un lampo in una linea verticale che tagliava a metà la sua faccia:
    - Io posso dirti dov’è andato. Posso dirtelo, posso condurti lì! -
    Atona. Impassibile. Apatica.
    - Lecher, mi hai sentito? – domandai, quasi supplichevole.
    - Sì - rispose secca.
    Poggiai la spada seleucida sulla terra brulla e mi avvicinai, ginocchioni, a lei. La presi per le spalle, ma lei si divincolò. Sibilò, velenosa come uno scorpione:
    - Se mi mentirai, ti farò patire le peggiori sofferenze. Sono stata chiara? -
    Limpida. Cristallina:
    - Posso baciarti? – la supplicai.
    - No – rispose di rimando, senza pensarci neanche un secondo.
    Ero vivo. Sì, vivo nel corpo. Nell’anima sapevo di aver perduto ormai l’amore che quella donna poteva aver provato per me in passato. La potenzialità di un sentimento da parte sua era ormai del tutto sfumata. E venne da piangere anche a me.
    Ma mi contenni.
    Indossai una maschera, per non mostrare nulla. Ero tornato un politico. Come nella vecchia, cara Albione. Che non mi aveva voluto. Che non mi aveva amato.
    Albione. E anche Lecher.
    Non mi amava. Nessuna delle due.
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    Dunque dunque :)
    Ho dovuto rileggere alcuni vecchi post e far mente locale, perché c'erano molte cose che sinceramente non ricordavo, ma ora ho una idea più chiara del tutto. Non c'è ancora nulla di concretizzano, ma almeno ora abbiamo qualcosa. Già le speculazioni su Lecher e le sue origini erano molte e ancora sto aspettando le risposte. Adesso però qualcosina già si sa e abbiamo un obiettivo da andare a pescare per averle.
    Come al solito bello lo stile, anche se devo ammettere che sono stato un pochino incerto quando c'è stato il passaggio di punto di vista tra Lecher e Alexander.
    Bel post comunque: molto emozionante lo scontro al cimitero. Poetico direi come posto xD
    Attendo il prossimo con ansia :)
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